martedì 13 novembre 2018

"Tutto si riempirà di futuro". Perché, oggi, serve ancora la politica.


A pagina 241 faccio una cosa che non faccio mai mentre leggo: chiudo un attimo il libro, cerco una matita, poi lo riapro e evidenzio un passaggio. Questo:

"Se i mutamenti reali sono prodotti solo dalla tecnica, quale spazio potrà mai esserci per qualunque progetto politico? Per forza la politica diventa solo retorica. Anche perché o la politica offre una possibilità per un miglioramento collettivo, indicando una direzione per la Storia oppure tanto vale pensare solo a se stessi. A quel punto la politica si limita a occuparsi di amministrare il quotidiano e noi possiamo dedicarci, per esempio, alla letteratura e osservare con occhio ironico lo svolgersi delle vicende umane. Insomma, se la politica non può cambiare il mondo, almeno il mio mondo, perché dovrebbe appassionarmi?"

Brutalizzando: la politica, oggi, serve davvero a qualcosa?

La domanda, che ci riguarda tutti, è di Elena Gogor, uno dei personaggi de "L'uomo di Mosca", il romanzo di Alberto Cassani edito da Baldini&Castoldi. Una domanda che Elena, giovane e bellissima (e misteriosa), rivolge a uno sbigottito Andrea Cecconi, mite (ma mica tanto) protagonista del romanzo, avvocato, ex assessore a Ravenna, sulla china del disincanto dopo aver abbandonato la politica, ma tiepidissimo anche verso gli ambienti borghesi che si ritrova a frequentare.

Una domanda che in quel momento lo lascerà senza parole, ma che troverà risposta nell'ultima pagina. Una risposta di poche righe, un ricordo di moltissimi anni prima, quando suo nonno (anche lui impegnato in politica),  sotto un cielo smisuratamente grande e stellato, parlandogli della vita che verrà, gli dirà: "Forse, a un certo punto, ti capiterà quello che è capitato anche a me, di pensare di poter cambiare il mondo, e di impegnarti in questo sforzo. Certo, anche questo impegno, visto da una qualunque di quelle stelle, potrà apparire un'inezia insignificante, per di più velleitaria perché destinata alla sconfitta, eppure, almeno per me, quello è stato il modo migliore per spendere il tempo della mia esistenza".

Una risposta che non scioglie del tutto il dubbio, ma che ci fa respirare. E che, guardando il bicchiere mezzo pieno, ci fa pensare che, sì, la politica è necessaria, fare politica è necessario. Ma che fatica, farla. Soprattutto di questi tempi.

Questa fatica si intreccia, lungo tutto il romanzo, con i tre piani di narrazione scelti da Cassani.
Uno è quello della spy-story con lo sguardo rivolto agli anni 70, quando il Pci aveva una linea diretta con il Pcus, con tanto di movimenti finanziari sotterranei. Al centro della scena Andrea, a cui il nonno, in punto di morte, rivela una vicenda dai contorni ancora molto appannati che lo porteranno ripetutamente a Mosca per cercare la verità, con uno sguardo che alterna fatti accaduti 40 anni prima alla quotidianità nel ravennate, tra Aldo Moro e Putin, Breznev e Berlinguer, il porto di Ravenna e il Mar Nero, il tesoriere del Pci locale e società di trasporti marittimi, in un intreccio sempre più fitto.

Il secondo è quello della vita personale e professionale di Andrea, una vita in cui il disincanto sfiora - senza però mai toccarlo - il cinismo. Un quasi-cinismo che arriva dopo anni di politica, certo, ma che appare come un elemento strutturalmente appartenente a chiunque abbia valicato la soglia dei 50 anni, quasi una forma di difesa, un galleggiante per non annegare nel vuoto cosmico delle relazioni - pubbliche o private che siano.
E così, un viaggio in treno tra adolescenti rincoglioniti, una serata al borghesissimo club Bizantyum con voglia di scappare, una passeggiata in centro, diventano occasioni per un tratteggio lucido, sempre ironico e divertente, su un'umanità, diciamo così, senza speranza.

Il terzo, quello che i palati più fini troveranno irresistibile, è quello della filigrana intellettuale, piccole scene quasi teatrali - spesso dialoghi - in cui Andrea discorre amabilmente citando Franzen, Canetti, Hobbes, l'uomo-massa, Gramsci. Chiaramente un divertissement che Cassani si concede - e fa benissimo - e che consolida alla perfezione, dandogli struttura, l'analisi del mondo che il protagonista squaderna agli interlocutori durante i dialoghi. O anche, semplicemente, in passaggi di raccordo tra un capitolo e l'altro. Veri gioiellini di ironia per pochi eletti (senza che i non eletti se ne abbiano a male).

Un romanzo, insomma, che dietro il confronto tra un'epoca di memorabili passioni politiche e un presente asfittico quanto a gamma di passioni possibili, illumina a giorno la scena del tempo che fu, quando la politica era totalizzante e identitaria. Mosca, in tal senso, diventa il baricentro di vite italiane, emiliano-romagnole, che sono state forzatamente - come molte all'epoca - doppie. Ma era per un buon fine, diciamo così, senza svelare il finale, di cui possiamo solo dire che reggerebbe tranquillamente la trasposizione cinematografica, tanto è ricco di colpi di scena.

Una cosa, però, ve la anticipo. Verso la fine, il protagonista annuncia che avrà un figlio, quando ormai lui e Laura - la moglie - non ci speravano più.
E quel figlio in arrivo pare rovesciare il tratto di malcelata sfiducia tenuto sin lì, tanto da far sottolineare meravigliosamente che "mille cose imprevedibili potranno succedere. Tutto si riempirà di futuro".
Tutto si riempirà di futuro.
Una frase assolutamente meravigliosa.
Un futuro che, senza dirlo, Andrea immagina con le parole del nonno, quell’impegno per cambiare il mondo che sarà anche velleitario e insignificante davanti alle stelle, ma che sarà stato il modo migliore per spendere la propria esistenza.

domenica 4 novembre 2018

Il cimitero dei viados


Quando sei un viados e sei spacciato perché ti sei ammalato di aids. Per anni hai battuto sui marciapiedi di Rimini, diventi uno scheletro, e in quelle condizioni le protesi al silicone che ti eri messo per farti un culo sodo, tette da sogno, zigomi pieni e labbra polpose, ecco, tutta quella roba che serviva per richiamare moltitudini di maschi, scende lungo il viso che si svuota, si accumula sotto le mascelle e si muove come tante piccole palline sottopelle, sulla faccia che perde tono, si ammassa solida tra le cosce malate e raggrinzite, appena sotto quel che resta delle chiappe, ora palloncini sgonfi e svuotati. E diventi un mostro, un essere deforme e malato. E solo.

E chi ti vuole più? 
Ma in realtà, chi ti ha mai davvero voluto?

Se è vero che sono i dettagli a fare la differenza, allora questa è la differenza. 
Che un viado che si ammala di aids, prima di morire passa anche attraverso una trasfigurazione del corpo mortificante e inevitabile. Un corridoio temporale di fine vita in cui il corpo, merce superba in vendita per un pubblico sempre maschile, si svuota e si sgonfia sotto la mazza pesante della malattia.

Un’umiliazione profonda, ma non certo la prima di queste vite quasi tutte uguali, tutte iniziate sui marciapiedi di qualche città del Sudamerica o di Cuba, dove questi viados di cui racconteremo ora, sono nati e – nel migliore dei casi - sono stati abbandonati quando erano ancora bambini. Nel peggiore, sui marciapiedi ci sono arrivati dopo essere stati abusati, 99 volte su 100 in casa da parenti e amici.

E sono morti soli.

Anzi, no. Non sono morti soli.

Ed è esattamente qui che comincia la nostra storia.

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Franz appoggia i gomiti sul davanzale della finestra. Poi con un dito mi indica una collina: “Lì c'è il cimitero di San Patrignano dove sono sepolti i viados".

“In che senso il cimitero dei viados?”, rispondo.

“Quelli che si prostituivano a Rimini. Quelli che si ammalavano di aids venivano qui a morire. Sono seppelliti lì”.

È passato qualche anno da quando Franz Vismara, il responsabile delle relazioni istituzionali di San Patrignano, mi ha detto quella frase.  
Era una giornata di festa per la Comunità, perché quel giorno si ufficializzava la convenzione tra l’ASL di Rimini e San Patrignano. 
Il Centro Medico della Comunità, un ambulatorio che serviva per visite e cure degli ospiti della Comunità, entrava a far parte delle strutture convenzionate con l’ASL. In sintesi, voleva dire che in quel Centro ci sarebbero potuti andare anche i cittadini dei comuni lì intorno, che non era più un luogo ad uso esclusivo di San Patrignano.

Come due vecchi amici, anche se in realtà ci conoscevamo appena, a cerimonia conclusa - mentre la gente defluiva - ci eravamo ritrovati affacciati sul davanzale di una delle finestre del Centro medico, a guardare fuori.

E lui mi aveva detto quella cosa.

Per qualche anno quelle parole erano rimaste sospese lì, in quella zona del cervello in cui vanno a finire le cose di cui sai di non doverti dimenticare. E ne avevo accennato ripetutamente ad amici e colleghi: il cimitero dei viados. Pensavo che fosse una cosa che andava raccontata, che non andava dimenticata, soprattutto.

Quel che mi aveva subito colpito, infatti, era stata l’idea di una sorta di ultimo atto di pietà, a ben vedere forse l’unico che quelle persone, i viados, avessero mai ricevuto nella loro vita: la sepoltura.

E così, dopo qualche anno, in un luglio veramente caldo, sono salito sulle colline di Coriano, per incontrare Antonio Boschini, memoria storica della Comunità, oltre che responsabile sanitario di San Patrignano. Per farmi raccontare da lui.

Quando entro nell’atrio dell’ambulatorio, so di disturbare. Qui c’è gente che sta male, e io in fin dei conti ho solo voglia di chiacchierare, di capire.

Chiedo di Antonio. E mentre chiedo di lui, eccolo che si affaccia da una porta: “Ciao Stefano, do una stampella a un ragazzo e poi sono da te”.

Ecco, io lo so che dovrei andarmene. Lì, a San Patrignano, la gente sta male sul serio. La droga, si. Ma anche altre dipendenze, il gioco d’azzardo su tutte. E in fin dei conti io interrompo una mattina di lavoro di Antonio per motivi tutti miei, che hanno a che fare con domande tutte mie. Però, penso forse in maniera un po’ autoassolutoria, è vero che forse le domande sono tutte mie. Però è altrettanto vero, mi dico, che le risposte le trovo solo qui.

E quindi Antonio. Antonio con le sue risposte.

Lorella Biondi e Antonio Boschini
Antonio che mi accoglie nel suo ambulatorio e comincia a ricordare: “Si, i viados. Vero. C’è stato un periodo in cui avevamo anche loro. Sono sepolti nel nostro cimitero. Il fatto che siano stati sepolti qui, è perché effettivamente nessuno reclamava le loro spoglie una volta morti. Erano completamente soli. Forse, tra di loro, avevano qualche amicizia, ma nel momento in cui morivano qui, non c’era nessuno che pensava a loro. E quindi pensavamo noi alla sepoltura”.

Antonio mi spiega che il motivo per cui i viados arrivavano in comunità era sempre legato alla combinazione tra la loro malattia e la loro solitudine: “I viados arrivavano al reparto di Malattie infettive all'ospedale di Rimini malati di Aids. Dal momento in cui potevano essere dimessi dall'ospedale, ma comunque non erano in grado di tornarsene autonomamente a casa loro – ma spesso non c’era neanche una casa loro - le Malattie infettive di Rimini chiedevano a noi di farcene carico. E noi lo facevamo. Semplicemente, lo facevamo.
Certo, ammetto che ero molto preoccupato all'inizio. Ogni volta che ci facevano questa richiesta, mi veniva un tuffo al cuore, perché io, almeno nell'idea parziale che avevo a quel tempo, vedevo il viado come l’espressione massima della trasgressività. E quindi, dato che qui c’erano i ragazzi che facevano il loro percorso di recupero e che qui in Comunità non avevano una vita sessuale, insomma, avevo il timore che la presenza dei viados potesse in qualche modo essere destabilizzante”.

Il pudore di Antonio, che quasi si scusa per un pensiero di questo tipo, aveva dei fondamenti solidi, inutile girarci intorno. Senza neanche scomodare Tondelli o richiamare l’eco della trasgressione della riviera negli anni ottanta. Erano timori inevitabili: “Molti dei ragazzi che facevano il percorso in Comunità, specialmente quelli che avevano avuto una vita molto trasgressiva, con uso di cocaina, avevano spesso avuto rapporti con i viados. E quindi, l’idea di pensare che dei ragazzi in percorso di comunità potessero assistere questi malati, accudirli, assisterli, cambiarli, avere cioè un rapporto che non era solo darsi la mano, ecco io temevo che questo potesse scatenare situazioni di difficilissima gestione per noi. Esporre i ragazzi, diciamo così, a dei comportamenti che io ipotizzavo essere seduttivi da parte dei viados, che io pensavo fossero estremamente trasgressivi, mi spaventava molto”.

Tiziana Giordani, volontaria storica della Comunità, vicinissima a Muccioli sin dall'inizio, ricorda: “Quando arrivavano qui in Comunità erano loro i ‘diversi’, e proprio qui stava la sfida: non li dovevi far sentire diversi. Il primo problema, però, c’era subito: le camere. Io e Antonio ci chiedevamo: Oh Madonna, dove li mettiamo? Vicino a una donna non va bene, vicino a un uomo, a un ragazzo, non va bene. Cosa facciamo?” Dubbi diffusi, profondi, che anche Antonio ricorda bene: “Certe volte ci chiedevamo: ma dove li mettiamo in camera? Con un uomo o con una donna? Perché da un certo punto di vista era molto più logico metterli con una donna in camera, che con un uomo. Solo che fisicamente non erano donne, erano uomini, per cui c’era questo tipo di interrogativo che ci metteva in crisi. Nessuno era preparato”.

Eppure sarebbero stati proprio i viados a rispondere, con i fatti, a tutti i timori “logistici” che in Comunità si erano diffusi per la loro presenza.

“Non è mai successo niente – mi racconta Antonio – Niente. Anzi, la cosa che mi ha colpito di più di queste persone è stata la loro estrema dignità e attenzione proprio nei confronti delle persone che li assistevano. Mai una parola, un’allusione, una malizia”.

A disinnescare qualsiasi meccanismo destabilizzante per la Comunità – più che altro il timore che questo potesse succedere – sarebbero stati i viados stessi. Persone che, a conti fatti, avrebbero presto spiazzato operatori e volontari raccontando le loro storie di vita, agli antipodi rispetto all'idea di trasgressività, piuttosto pozzi neri di disperazione e fughe eterne.

“Alcuni di loro erano profondamente religiosi – dice Antonio – Ed erano persone che effettivamente avevano una sensibilità femminile, veramente molto sensibili. Quello che si coglieva in maniera forte era che pensavi veramente di avere a che fare con delle donne. Gentili. Soprattutto molto gentili”.

Lorella Biondi, che negli anni tra il 1990 e il 2000 era educatrice e coordinatrice delle degenze, e che ora si occupa dei farmaci nella Comunità, mi fa un esempio pratico: “Quella che mi ricordo di più era Antonio Correa dos Santos. Che poi, a dire la verità, usavamo un nome italiano per chiamarla, un nome che adesso non mi ricordo esattamente. Però quello che ricordo bene, a parte l’imbarazzo iniziale – dato che comunque avevi a che fare con una persona diversa – era che, pur essendo un uomo, era proprio una donna. Era una donna fatta e finita. Una persona gentile”.

Antonio Correa dos Santos amava leggere. Ma era quasi cieco per le infezioni.

“Antonio Correa dos Santos era gentile. Quello che mi ricordo è che gli piaceva leggere. C’erano delle persone che si mettevano lì, gli facevano le letture – mi racconta Lorella - I ragazzi della comunità leggevano, gli facevano compagnia. Alcuni malati, e tra loro anche i viados naturalmente, a causa di infezioni agli occhi perdevano la vista. Antonio era tra questi”.

“Si, ricordo benissimo – spiega Tiziana – Ricordo di aver letto ‘La città della gioia’ di La Pierre. O Siddharta di Hermann Hesse. Libri che, per me, erano bellissimi. Molte parole questi ragazzi, i viados, non le capivano e allora passavi molto tempo a spiegarne il significato. Si, erano delle belle persone, decisamente. La lettura era una forma di compagnia”.

Anche Lorella ricorda bene: “Come no, amavano la compagnia della lettura. Mi ricordo ‘E venne chiamata due cuori’ di Marlo Morgan. Alcuni tra loro avevano proprio una predilezione a queste letture romantiche, sentimentali. Proprio le letture del cuore insomma”.

Tiziana Giordani
“Erano davvero persone sensibili. I viados, quando parlavano di se stessi, raccontavano sono gli amori. Gli amori, si. Amori con persone a cui di solito non avevano detto della sieropositività e della malattia. In comunità ho conosciuto non solo viados – mi spiega Lorella - ma anche i ragazzi, i loro fidanzati, che erano clienti di viados. E in genere non erano omosessuali, erano persone che non riuscivano ad instaurare un rapporto intimo con le donne.  Gli risultava più facile instaurare un rapporto intimo con gli uomini, che è una cosa diversa dall'omosessualità. I clienti dei viados sono – e lo erano anche all'epoca - eterosessuali.  Alcuni erano ipertrasgressivi, cocainomani, ci andavano soltanto così, per fare la bravata, la nottata. Ma io ho conosciuto diverse persone che proprio avevano instaurato dei rapporti affettivi con i viados, si erano fidanzati, ci avevano convissuto anche per un anno.  E i viados, quando ci raccontavano le loro vite, facevano riferimento a questa parte, a quella sentimentale, non a quella – diciamo così – commerciale”.

Tra le pieghe della quotidianità, insomma, emerge il lato più inaspettato, quello di una sensibilità lontanissima dalla trasgressività giocoforza esercitata nel momento della prostituzione.

E, ritrovando in un certo senso una sensazione di pace – in realtà preludio al fine vita – molti tra i viados si aprivano per condividere le parti più dolorose delle loro vite: “Parlavano della loro fuga – racconta Lorella - La maggior parte erano brasiliani, e quello che raccontavano era la non accettazione da parte dei loro familiari di questa loro condizione, della loro sessualità diversa sin da bambini. Quindi c’era già una solitudine estrema. Una solitudine che si sarebbero portati dietro per tutta la vita”. “Quando parlavano delle loro origini si incupivano – aggiunge Tiziana – Quasi tutti erano stati violentati da bambini. In qualche modo trovavano il sistema di fuggire e arrivavano in Europa, e anche qui a Rimini. Trovandosi qua, cosa potevano fare sulla strada? Non si accettavano, per cui alcuni si facevano, si prostituivano e, chiaramente, si ammalavano. Erano però tutti di una dolcezza squisita, di una bontà estrema, puliti dentro nonostante avessero vissuto delle offese, delle mancanze di rispetto. In un certo senso potrei dire che non si erano sporcarti. Erano candidi dentro, erano puliti”.

Se le condizioni lo permettevano Tiziana organizzava anche qualche uscita. “Si, me li portavo dietro insieme agli altri ospiti della Comunità. Dove andavo, me li portavo dietro. Li caricavo in macchina e li portavo giù al mare d’estate. Facevano il bagno: 'Ma l’acqua è salata, Tiziana! Ma l’acqua è salata!!', mi dicevano.
Beh, dico, è normale, è l’acqua del mare. Perché voi non lo sapevate?
No!!
Erano abituati, dove vivevano,  ai fiumi, vai a capire, che l’acqua non era salata. 
Tiziana,ma l’acqua è sa-la-ta!”.

Lorella ricorda bene uno dei desideri più forti: “Nonostante le origini così dolorose, sarebbero voluti tornare a casa, esattamente dov'era iniziato il percorso della loro tragedia. Molti tra loro ci facevano vedere le foto dei parenti, dei familiari, con grande nostalgia. Ma a frenare l’idea del ritorno c’era un problema economico per tutti, indistintamente. E anche il problema dei farmaci, dato che a casa loro, in Brasile e Cuba principalmente, le cure non c’erano. E quindi di fatto erano costretti a rimanere qui. Ma non era una costrizione dolorosa, qui avevano instaurato buoni rapporti, rapporti affettivi, proprio con la messa in gioco di sentimenti”.

E per tutti, indistintamente, l’incubo del silicone.

“Poveretti, li dovevi vedere – mi racconta Tiziana - Prima di tutto, erano tutti rifatti. E vedevi nel tempo, con la malattia, l’effetto del muscolo che si afflosciava. Per cui vedevi questo silicone che scendeva, non stava più nell'apposita sede del muscolo. Era una roba allucinante, poverini. Vedevi questi bozzi di silicone che avevano riempito i glutei e che poi erano scesi, erano completamente fuori posto. E noi naturalmente cercavamo sempre di alleggerirli, di non far pesare queste cose. Mi ricordo quando arrivavano in Comunità, ognuno arrivava col proprio pacco di vestiario in cui c’erano tanga, abiti da sposa, vestiti ‘mega’, sai quegli abiti da sera da donna coi brillò, tutti leggerissimi, tutti molto ‘tanto’. E poi, vedendo quel corredo, facevi il confronto con la situazione in cui si trovavano, vedevi come si erano ridotti, con il silicone che li riduceva in quel modo, e capivi ancor di più la loro solitudine”.

Silicone spietato, che si scollava e scendeva: “Si, era un grande imbarazzo – conferma Lorella - cascava tutto giù. Sui fianchi, sul sedere”.

Ma soprattutto, come ricorda Antonio, era il viso a pagare le conseguenze più drammatiche: “Il tessuto adiposo veniva a mancare e quindi, per chi aveva fatto l’intervento agli zigomi, era quasi crudele. Vedevi le facce che si trasfiguravano, c’erano queste palline di silicone sottopelle che giravano per la faccia. Loro erano imbarazzatissimi”.

La morte negli anni novanta permeava la comunità, avvolgendola implacabilmente. I farmaci per combattere l’hiv erano ancora lontani dall'essere sperimentati e messi in circolazione: “In quegli anni c’era una mortalità spaventosa – mi conferma Antonio - Credo che qui siano morte almeno 500 persone di aids fra il 1993 e il ‘98, ‘99, fino a quando hanno cominciato a fare effetto, appunto, le nuove terapie. All'inizio, ogni volta che moriva qualcuno si faceva il funerale a cui partecipava tutta la Comunità. Però poi ci siamo resi conto che non era più possibile fare una cosa del genere, perché la Comunità avrebbe vissuto in un lutto costante. Avresti dovuto far vivere quel lutto anche alle tantissime perone sieropositive che comunque stavano ancora bene ed erano in comunità. Non era proprio pensabile vivere sotto questa cappa di morte. Quasi ogni giorno moriva qualcuno. Quindi a un certo punto abbiamo deciso di non fare più il funerale, ma semplicemente una piccola funzione qui nella cappella del centro medico, dell’ospedale, a cui partecipavano solo gli amici più stretti, e non tutta la comunità”.

Antonio Correa dos Santos e gli altri viados ospiti a San Patrignano tra il 1990 e il 2000, si spengono circondati dagli amici che nei pochi mesi di permanenza in Comunità (di fatto per loro con funzione di hospice)  li avevano accolti e accuditi. Una piccola funzione anche per loro, un saluto con qualche parola e poi la sepoltura.

Salgo la strada che in salita porta al piccolo cimitero sulla collina. Il cancello sembra chiuso, ma basta spingere per entrare.

Un microscopico cimitero sui colli, dove è sepolto Vincenzo Muccioli, dove è sepolto Gianmarco Moratti. Le lapidi di Muccioli e di Moratti sono circondate da persone morte per aids. E ci sono Correa dos Santos - morto a 16 anni - e gli altri, vissuti soli, arrivati qui soli, sepolti nell'abbraccio della Comunità.