giovedì 16 aprile 2020

Presto nascerò di nuovo


Dovrei sentirmi colpevole, visto che sto per raccontarvi una dimenticanza, grave, tutta mia.
O forse una sottovalutazione. O entrambe le cose.
Ma in qualche modo è come se avessi avuto una seconda occasione. E spero di rimediare.

Nell'obbligo dell'isolamento da Coronavirus, le mie figlie puntano all'impensabile: riordinare il garage.
Quando arriva il momento delle "cose papi che devi fare tu", ho un armadio grande come una parete da aprire e svuotare dalle cose inutili.

C'è un'anta, su in alto, il bordo sfiora il soffitto.
Non la apro da, boh, quanti anni? 20? Forse di più.
Credo di averla aperta solo una volta, per mettere dentro le cose che ritrovo adesso.

Agende. Agende piene di appunti.
Tutta roba mia, appunti presi in anni di conferenze stampa tra il 91 e il 96, quando collaboravo con la Gazzetta di Modena, non so neanche perchè le ho conservate, vai a saperlo, feticismo da cronista di periferia.

Solo agende, tranne una carpetta di plastica trasparente. Una sola.
La prendo, dentro ci sono dei fogli, una cinquantina, scritti a macchina.

C'è un titolo: "Un pugno di ricordi".
Non ho la minima idea di cosa sia, tranne una vaghissima sensazione di una mano che mi consegna quel plico almeno 25 anni fa. Ma non ne sono sicuro.

Leggo le prime righe. Forse mi aiuteranno a ricordare.

"Non ho mai avuto il benché minimo desiderio di leccarmi le ferite della mia giovinezza, da un pezzo cicatrizzate. Se ho deciso ora, di permettere alla mia memoria di parlare, di descrivere il sangue, le lacrime, i dolori, le gioie dell'amicizia che hanno nutrito la mia fede nelle capacità del genere umano di resistere e di creare, è perché la nostra gioventù idealista e disorientata, ha bisogno di sapere e di armarsi contro le tragedie, le ipocrisie e i falsi della storia".

Scorro con lo sguardo il resto delle pagine, le sfoglio rapidamente, intercetto le prime parole chiave, militi fascisti, Germania, il signor Kunz, Mauthausen, campo, dissenteria, deportati, Milano.

Ho tra le mani il diario di un sopravvissuto al campo di concentramento.
Fogli dattiloscritti che qualcuno, forse l'autore stesso, mi ha dato almeno 25 anni fa.
Un diario che io ho chiuso dietro un'anta.

Non ho la minima idea di chi me l'abbia dato.
Non so se me l'avesse dato per leggerlo.
O per provare a pubblicarlo.
O per diffonderlo in qualche modo.

Lo leggo tutto, non ci sono indizi per capire chi sia.
Capisco che si chiama Andrea, che è stato arrestato a Milano il 13 dicembre 1943, nelle giornate di sciopero generale proclamato dal movimento clandestino.
Spedito a Mauthausen insieme a un centinaio di altri prigionieri politici, cantando il Nabucco mentre il treno esce da Milano "per sfidare i tedeschi che ci privano della libertà".

L'arrivo a Mauthausen, destinati  a una fabbrica di aeroplani, la Heinkel a Schwechat, vicino a Vienna, poi un altro campo, in realtà una nuova fabbrica nel sottosuolo, una grotta naturale da cui viene tolta l'acqua, 12mila metri quadri per costruire gli aerei per il Fuhrer. 

I flemmoni, piaghe di pus, che iniziano a coprire braccia e gambe per la fatica fisica, che Andrea cicatrizza coprendoli con la vernice e lo smalto con cui dipinge le carlinghe degli aerei, che qui non bisogna far vedere che stai male.

E l'incontro nel lager con Robert Dubois,  membro del comitato centrale del partito comunista francese, a cui salva la vita una volta. Quello stesso Dubois che però dopo qualche settimana morirà per lui, in uno dei tanti meccanismi disumani dei campi di concentramento.

E Giuliano Paietta, il fratello di Gian Carlo, rappresentante italiano nel comitato clandestino  del campo principale, anche lui lì a  Mauthausen con Andrea. 

Le trattative con i nazisti che capiscono che la guerra è persa, il campo che viene affidato ai deportati, che poi innalzano sulla torretta del corpo di guardia la bandiera rossa, simbolo della resistenza.

I civili tedeschi che fanno da capiofficina a Andrea, prima il signor Kunz, poi il signor Hafner, di Treviri, che a loro modo lo rispettano. Quasi una forma di affetto, che gli fa ammettere che "si può trovare bontà umana in tutti gli uomini, persino nel gruppo, che sarebbe certo assai semplice, condannare in blocco".

La fame, sbriciolare pezzi di legno da mangiare così, senza bere, per fermare quella dissenteria che lo fa dimagrire a vista d'occhio, proprio adesso che il rumore delle cannonate del fronte si sente vicino, segno che è quasi fatta. 

I compagni del lager  che la notte del suo compleanno gli cantano sottovoce 'sous l'espresso ponts de Paris', "una vecchia e bellissima canzone a me particolarmente cara, perché mia madre me la cantava quando ero piccolo per farmi addormentare. Non riceverò più, ne sono certo, nella mia vita, se non dovrò abbandonarla, un regalo più prezioso"

Il senso di colpa per essere sopravvissuto. 

Una sola parola in tutto il dattiloscritto, sottolineata: "In questa meravigliosa giornata, verso le 11.30, si sente un forte rumore di motori. Arrivano le autoblinde americane da ricognizione". Meravigliosa, è questa la parola sottolineata, descrivendo il 5 maggio 1945, quando gli americani liberano il campo.

E la considerazione finale con "l'imperativo di fare tutto ciò che posso, per il trionfo della speranza sull'odio, sulla distruzione e sulla morte, forze che possono ancora, se non si sta attenti, spingere l'umanità alla pazzia".

Non so chi sia Andrea.
So che qualcuno, forse lui stesso, mi ha consegnato tanti anni fa questa testimonianza, che io ho chiuso per 25 anni dietro l'anta di un armadio che sfiora il soffitto.
Ma lavorerò per diffonderla, se nel frattempo non ha trovato già un approdo, un editore, un centro ricerche che lo ha già accolto.

Solo una cosa cambierei del dattiloscritto di Andrea: il titolo.
Userei una frase che pronuncia una notte, mentre riflette sul suo futuro: Presto nascerò di nuovo.