domenica 27 giugno 2021
Finisco di girare la polenta e arrivo
domenica 25 aprile 2021
Sicuramente non nelle migliori famiglie
Invoco il primo dei dieci diritti del lettore: il diritto di non leggere.
Di non leggere, anche se l'ho già fatto, "Nelle migliori famiglie", il nuovo romanzo di Angelo Mellone, di cui avevo letto una recensione - un peana, per meglio dire - di Aldo Cazzullo.
Sobriamente, Cazzullo così introduceva il tema in una mezza paginata sul Corriere della Sera una ventina di giorni fa: "Nel tempo in cui ci si sposa sempre di meno e ci si separa sempre di più, viene quasi scontato chiedersi se la crisi del matrimonio — la forma istituzionale del giuramento di amore eterno — sia davvero irreversibile. È una questione di egoismo sociale, di debolezza dei legami, di narcisismo diffuso? Ci pensa ogni tanto qualche saggio scientifico e ogni tanto ci pensa la letteratura"
Ci pensa la letteratura. Ci pensa il romanzo di Mellone, a cui Zincone affida il ruolo di stella polare per illuminare (l'Occidente in particolare) la roadmap su cui il matrimonio sta navigando solo apparentemente a vista.
Probabilmente sbilanciato da aspettative siderali, attendo che il romanzo decolli, perché nelle prime 50 pagine ha la consistenza della carta velina. Scrittura fluida, solidità latitante. Aspetto che l'intreccio tra le biografie dei personaggi e la trama mi permetta di pensare tra me e me ogni tanto almeno un "ah cazzo, però", ma niente. E nessuna notizia sul destino dell'istituzione-matrimonio.
E qui mi tocca a dare ragione - ahimè - a Davide Baruffi, che per indicare la fragilità dei romanzi, intesi proprio come forma di narrazione, un giorno mi ha ricordato una frase folgorante di Leo Longanesi:
"Flaiano è come me. Né io né lui ci rassegneremo mai a scrivere una frase come: "Ella staccò la fronte dal vetro della finestra e venne verso il centro della stanza". Purtroppo un romanzo esige anche passaggi banali: nemmeno Tolstoj può esimersene. Flaiano, come me, preferisce rinunziare al romanzo".
Il punto è che di passaggi banali è pieno il libro, ma soprattutto a un certo punto si staglia in tutta evidenza un'altra verità scolpita nella pietra, sempre da Flaiano, e cioè che "Un buon scrittore non precisa mai". E invece va esattamente così. Va che dai personaggi non arriva niente, dalla trama manco a parlarne, immersa com'è - paradossalmente nel tentativo di uscirne - di confermare una serie infinita di cliché sulla famiglia contemporanea. L'escamotage narrativo, alla fine, è una voce narrante fuori campo che di tanto in tanto raccorda gli eventi, spiegando - appunto - quale sia il senso di quel che si è appena letto o che si sta per leggere. Che è più o meno come quell'attimo glaciale in cui si sente la necessità di dover spiegare una barzelletta appena raccontata.
E tutto avviene nelle ultimissime pagine, che a voler pensare male sembra di sentire l'editore che dice all'autore di darsi una mossa a finire il romanzo, che qui bisogna pubblicare al più presto dai dai dai. E così, una vicenda che avrebbe meritato almeno altre 200 pagine di ossigeno per dispiegarsi in tutta la sua potenza (e soprattutto lasciare che siano i personaggi a parlare), si infila in un imbuto di 3 pagine in cui tutto viene a capo. Con l'aggiunta di una paginetta finale con un elemento oggettivamente catastrofico per la trama, ma che buttato lì sembra quasi un'appendice dimenticata negli appunti e recuperata al volo per non lasciarla nel cassetto.
martedì 26 gennaio 2021
Ok, panico.
Anche se al Bar Jolly a Vittorio hanno vinto mezzo milione di euro al Gratta e Vinci, io quel bar me lo continuerò a ricordare per tutt'altro, per uno dei momenti di massimo panico della mia vita, ma - soprattutto - per una delle reazioni più coraggiose (della mia vita, ça va sans dire).
Dunque, eravamo dalle parti degli anni Ottanta, direi 1984. Liceo scientifico, fine anno scolastico, pagella a precipizio, matematica ecatombe, fisica livello terrapiattista, filosofia orientamento Tv Sorrisi e Canzoni.
Teorico perenne del bicchiere mezzo pieno, non ho dubbi: ce la posso comunque fare.
Quelle giornate di fine anno in cui hai 5 ore, 4 inutili, ma la quinta ti giochi l'anno: interrogazione di chimica per evitare la bocciatura, per poi sbandierare 3 materie a settembre come un assoluto trionfo accademico.
Che fare? Saltare le prime 4 ore e - lo so, sembra incredibile - studiare 240 minuti ininterrottamente chimica per entrare solo alla quinta ora, offrirsi volontario e salvare l'anno.
In classe non si può studiare. Dove, allora? Vicino a scuola, tipo in un bar. Marinare, bigiare, ecc ecc, da noi di diceva: bruciare.
Ok, brucio 4 ore e entro la quinta.
Unico rischio mortale durante la sosta di 4 ore al bar: #farsitrovaredaigenitori.
C'è un rischio di livello siderale: mio papà, che di solito con la ditta per cui lavora è sempre lontano, proprio in quei giorni lavora non solo a Vittorio, ma proprio a metà strada tra il bar e la scuola.
Dai, non verrà proprio in questo bar.
Il mio compagno di bruciate, quella mattina, è Sergio. Stesso schema, stesso bar, stessa materia. Ci faremo interrogare insieme.
Metto a punto un piano INFALLIBILE: mi siedo dando la schiena all'ingresso, così passo inosservato. Sergio si siede di fronte a me e può vedere chi entra. Se sta per entrare uno che corrisponde a questo profilo:
[Uomo robusto di circa 50 anni, barbone folto] vuol dire che è mio papà, e quindi mi deve avvertire.
Passa un quarto d'ora. Sergio mi chiede: "Eo to pare quel là?"
Brivido.
Mi giro: mio papà è al banco con un collega, beve un caffè.
Sorvolando sul fatto che Sergio non ha fatto l'unica cosa che avrebbe dovuto fare - avvertirmi PRIMA che entrasse - capto la provvisorietà del mio piano, tipo non aver previsto la risposta a questa domanda: cosa faccio se entra mio papà?
Mappo mentalmente il posto per individuare vie di fuga, armadi in cui nascondermi, palme dietro cui mimetizzarmi, parrucche da indossare, cabine telefoniche dentro cui inabissarmi. Non c'è alcuna possibilità.
Scelgo l'opzione eroica.
Mi faccio vedere, non c'è altro da fare.
Andrò incontro al mio destino con dignità. Abbandonerò la scuola, per me un orizzonte di lavori forzati per i successivi 30 anni come sottoaiutante manovratore di betoniere nei cantieri o tosatore di yak sui pascoli dell'Alto Adige. E dopo, ma solo dopo, potrò riprendere a studiare.
Vado dritto verso il banco del bar: ciao papà!
Silenzio sbigottito, mi guarda sorpreso: "Ciao, cosa fai qua"?
"Studio".
Ecco, io ricordo ancora distintamente la risata a quella risposta, un vero gesto di clemenza istantanea, che mi avrebbe inaspettatamente proiettato leggero verso l'interrogazione di chimica e a godermi il trionfo di sole 3 materie a settembre.
venerdì 18 settembre 2020
Non ha tempo da perdere
Mattino, un bar, prima periferia di Modena.
Osservo uno dei baristi. Sessant'anni, giù di lì.
Mai visto prima, eppure qui ci passo abbastanza spesso.
Quasi calvo, tenace nel non dichiarare sconfitta al deserto che avanza tra i capelli, si affida a un riporto grottesco, commovente nel tentativo fallito.
Poche parole, sempre gentile, postura rassegnata.
Ma gentile davvero, con tutti.
Buongiorno dica un cappuccino un caffè prego sono quatto euro il bagno è dietro la colonna zucchero bianco o di canna caffè macchiato questa è vegana con la marmellata un goccino d'acqua arrivo ristretto di soia.
Vado alla cassa: "Pago un cappuccino e una brioche", dico.
Una voce riempie il bar, potente come una testata data con violenza per spaccare un setto nasale.
OOOOOOOHHHHHH, A ME NON MI SERVI????
PORCA TROIA, SONO QUA DA DIECI MINUTI, NON MI SERVI A ME? EH??
Silenzio nel bar.
Giro lo sguardo.
Avrà 25 anni. Capelli rasati sulle tempie, occhiali a specchio, maglia ampia da basket, pantaloni corti, mano destra a domandare che cazzo aspetti a servirmi.
STAI SERVENDO TUTTI TRANNE ME CHE SONO QUA CHE ASPETTO.
Silenzio nel bar.
Nessuno guarda nessuno.
Scusi, scusi, dice il barista, molla tutto e si piazza davanti al tizio per esaudire i suoi desideri.
DAMMI QUESTA AL CIOCCOLATO E UNA VUOTA. POI UN CAFFÈ MACCHIATO.
Ecco, dice il barista, che si scusa per la terza volta.
Silenzio nel bar.
DAMMI ANCHE UN BICCHIERE D'ACQUA.
Si eccolo.
Si allontana, si siede a un tavolino.
Mentre provo a pagare, si avvicina di nuovo verso il bancone.
Mastica a bocca spalancata la brioche, potrei contargli le otturazioni dei denti.
GNAMMI ANGHE UN CAPUGGNINO.
Meglio di così, a bocca piena, non gli riesce.
Pronti col cappuccino.
Torna al tavolino.
Silenzio nel bar.
Dopo qualche secondo arriva sua madre, guarda la brioche e sentenzia: questa non mi piace.
Il tizio si alza, prende la brioche: CAMBIA LA BRIOCHE DI MIA MAMMA. SI PUÒ? QUESTA NON LE VA BENE.
Pronti, cambio della brioche.
Il barista continua a scusarsi.
Silenzio nel bar.
Pago.
Esco.
Una telefonata prima di salire in macchina, accendo il motore, parto.
Lo vedo uscire dal bar, si dirige con sua mamma verso una Bmw.
Autostrada.
Sullo specchietto retrovisore vedo il tizio sulla Bmw che si avvicina ai 200 all'ora, sorpassa a destra e sinistra, zig zag tra le corsie, abbaglianti, toglietevi dai coglioni che non ho tempo da perdere.
lunedì 3 agosto 2020
Implacabile nell'odio, tenace nel rancore
sabato 25 luglio 2020
Che sperimentazioni, mon dieu
Le cedo il passo.
Da fuori, onesto, l'urlo della folla che le elenca le sperimentazioni a cui stanno pensando.
mercoledì 15 luglio 2020
Datemi quei guanti di cemento
Ho smesso di leggere.
Non proprio.
Quasi smesso, dai.
Vengo inghiottito dal cellulare.
La scorsa settimana, una sera, ho guardato il video di un tizio che riempiva di cemento due guanti da cucina, ha aspettato 18 ore che il cemento si consolidasse, li ha dipinti con vernice dorata e li ha trasformati in due supporti per un vaso che aveva ricavato da uno straccio, anche questo ricoperto di cemento in modo che si irrigidisse.
Dentro a questo vaso ci ha messo un'anguria, dopo averla svuotata, e ci ha inserito una pianta grassa. Et voilà.
Poi sono rimasto a guardare un altro tizio che ha preso degli scatoloni di polistirolo dentro cui, fino a poco prima, c'era del pesce destinato al mercato di non so quale città asiatica. Li ha tagliati e rimodellati, li ha cosparsi di una vernice impermeabilizzante e ne ha ricavato una piscina (difettosa) per il figlio, piazzandola su un terrazzino, con grande effetto a cascata verso l'incazzosissimo inquilino al piano di sotto.
Ho visto una rissa tra camionisti russi con intervento finale della polizia, una serie di incidenti autostradali, qualche aereo che atterrava sfidando un vento impossibile, un elefante salvato da una pozza di fango in cui era caduto, una tizia giapponese che affettava un cavolfiore con un coltello che nel frattempo emetteva dei suoni armonici sulla base della velocità del taglio.
Non volendo rassegnarmi all'idea di essermi totalmente rincoglionito, ho provato a dare una giustificazione teorica a questa mia deriva da azzeramento neuronale, a trovarci un senso, a sentirmi sulla stessa barca insieme a tanti altri, a trovare quel mezzo gaudio in mezzo a questo mal comune che è il rincoglionimento da smartphone.
L'ho trovata in un libro che, mooooolto faticosamente, leggo da qualche mese ("Scansatevi dalla luce. Libertà e resistenza nel digitale", di James Williams, un ex strategist di Google).
È una fatica titanica leggerlo, perché dopo mezza pagina sento lì di fianco, nel cellulare posato sul comodino, il richiamo della foresta digitale.
Sento che ci sarà sicuramente un tizio che sta sfondando la vetrina di un parrucchiere con l’Apecar, o quel cane che dorme e sogna di correre, o un’asse da stiro trasformata in appoggio per stendercisi sopra e infilarsi sotto al lavandino per sturarlo. Come posso perdermeli?
Williams, nel suo saggio, squaderna questa teoria: siamo immersi in una rivoluzione digitale in cui una costante "persuasione sofisticata", veicolata dai meccanismi dei social, si allea con una "tecnologia sofisticata" per spingere gli obiettivi più insignificanti possibili direttamente dentro le nostre vite.
Niente di nuovo sotto il sole, solo un aggiornamento della millenaria questione dell’omologazione. Con qualche variante.
Provo a dirla con il gomito appoggiato sul bancone del bar, così è più semplice: non siamo più capaci di prestare attenzione a ciò che ci interessa, ma solo a ciò che ci viene "imposto" come desiderio.
Un desiderio compulsivo, che – pur sfaccettato in mille categorie merceologiche mentali come l’oceano di cazzate dei social – sostanzialmente riconduce a un ridottissimo quadro di sogni prêt-à-porter.
Ma quelli. E solo quelli.
Che partono dai guanti riempiti di cemento e arrivano alle praterie del consenso politico.
Non abbiamo più desideri nostri, siamo solo compulsione eterodiretta (wow, siamo nel giardino semantico in cui potrebbe passeggiare Recalcati).
E l'interruttore di questa compulsione, in sostanza del meccanismo che dirige la nostra attenzione in una direzione o l’altra ha un nome che conosciamo benissimo: le notifiche.
Williams dice che le "distrazioni funzionali" - quelle che ci distraggono dai nostri veri desideri e ci incanalano in un mainstream che non corrisponde ai nostri veri sogni - le distrazioni funzionali, dice, "arrivano comunemente grazie alle notifiche".
Calmi. Siamo solo al primo passaggio. Più tardi viene il bello.
Qualche numero che mi riguarda.
Sul mio Samsung S9 Plus ho una sezione che si chiama "Benessere digitale". In pratica mi dice quanto tempo sono stato connesso e mi elenca una serie di dati.
La scorsa settimana ho ricevuto 4055 notifiche, in gran parte concentrate tra Whatsapp e Facebook oltre che da gmail, instagram, telegram, twitter. Ma principalmente le prime due.
Mi dice anche che ho sbloccato lo smartphone con l'impronta digitale 1199 volte. 1200, via.
Mi rendo conto, però, che io sblocco il cellulare anche quando non ho notifiche, quasi a chiedermi: beh? Nessuna notifica? Quasi un riflesso pavloviano anche in mancanza dello stimolo.
Non solo. Sono molto distratto, molto più di qualche anno fa (e partivo da un livello che non raccomanderei a nessuno, capace di fare tre volte la stessa domanda senza ascoltare la risposta, per capirci).
Ma cosa c’entra l’alto numero di notifiche con il fatto che non riesco più a leggere?
Anche qui Williams mette nero su bianco un filo logico che mi vorrei tatuare: “L'esposizione a notifiche ripetute può generare abitudini che allenano l'utente a interrompersi anche in assenza degli stessi dispositivi tecnologici. Tendiamo a sottovalutare i danni delle distrazioni funzionali a causa della minuscola misura della loro influenza".
Impossibile concentrarsi sulla lettura, quindi. Siamo (io sono) dentro un mood costante di notifiche che ci accompagna anche quando le notifiche non ci sono.
Pausa, prima del gran finale:
- Le notifiche che ricevo riguardano al 75% il lavoro.
- Quando sblocco il cellulare dopo la notifica, risolvo la notifica, ma penso: beh dai, un’occhiatina al volo a Facebook, Instragram, alle chat di whatsapp, Repubblica, il Post, Lercio, le webcam della Pusteria, Cristiano Ronaldo, i post di Beppe Cottafavi, TML, Osho, Commenti Memorabili, Severo ma giusto. Risucchiato a caduta libera nel pozzo.
- Sentirsi un tossico. Proprio lo stesso meccanismo, ma non per modo di dire.
E siamo al dunque.
“Tuttavia – aggiunge Williams - come scrive il filosofo Matthew Crawford, ‘la distraibilità può essere considerata l'equivalente mentale dell'obesità’. Da questa prospettiva, le distrazioni funzionali individuali possono essere viste come delle singole patatine".
Ci distraiamo – perché tutto è organizzato (spoiler: non sono complottista, è solo per farmi capire) per farci distrarre, per non mettere in campo la nostra attenzione – e vogliamo continuare ad essere distratti in una compulsività che si avvita e si autoalimenta.
Essere tossici. Essere obesi.
Mi distraggo, quindi non penso, quindi non sono.
Un calembour cartesiano per dire che ci stiamo tutti omologando al ribasso cognitivo, un meccanismo che raccoglie nel recinto del web le macrocategorie di un neo-pensiero unico (apparentemente iperstrutturato) a cui ci atteniamo tutti, in cui anche un banalissimo paio di guanti da cucina riempiti di cemento a far da supporto a un vaso-anguria conferma il funerale della nostra libera attenzione (della mia sicuramente), a favore di un mega-tunnel di contenuti preinscatolati, scambiati per praterie di libertà. Poi su questo vorrei tirare in ballo anche la tesi di Baricco in The game, sostanzialmente sovrapponibile, ma l'ho fatta già abbastanza lunga.
Non vi ho convinti.
In effetti è che semplicemente mi piace cazzeggiare su Facebook, ma con questo spiegone sembra più accettabile.