domenica 28 maggio 2023

La vita nelle "cose da buttare"


Nella foto non si vede, ma proprio lì nel mezzo c'è Riccardo, un ragazzone grande, modi spicci ma rassicuranti, con una barba folta e t-shirt abbondante, che da giorni, più volte al giorno, raduna i gruppi di nuovi volontari che arrivano a Castel Bolognese ad aiutare e spiega loro alcune cose prima dell'inizio del lavoro. Ha modi pratici, indicazioni brevi e molto operative, parole chiare come si conviene nelle situazioni in cui non c'è tempo da perdere e l'organizzazione deve filare senza intoppi. Inizia ringraziando: "Quella che state facendo è una cosa bella, perché aiutare una comunità in difficoltà è un dono che non ha valore". Poi aggiunge parole meno pratiche, ma sono le più importanti, quelle che fanno la differenza, che danno la misura della civiltà di un popolo, della sensibilità di un territorio, della cura nella tragedia: "Quando sarete nelle case, troverete tantissime cose da buttare. Tantissime. Trattatele bene le cose da buttare, perché in quelle cose c'è l'intera esistenza delle persone che le ha perse. Siate attenti e delicati con le cose da buttare, perchè quella è la vita delle persone".

martedì 1 novembre 2022

Avevamo la felicità in quei passi nella neve

Un'incosciente propensione volterriana mi spinge a pensare ogni giorno - non solo a pensarlo, ma ad essere avvolto dalla sensazione ed esserne certo - che sto vivendo la giornata migliore della mia vita. 

Sarà l'eredità di un'infanzia assolutamente perfetta, una sorta di proiezione infinita di quegli anni. Materia per gli psichiatri, o perfetta per il bar, dipende. Ma questo è.

Qualche giorno fa, su Robinson, Gabriele Romagnoli ripercorre, di sponda, la biografia di Philip Roth a firma di Blake Bailey e ne cita un passo che rimanda esattamente a questa sensazione, anche se con un corollario diametralmente opposto: "Non c'era nulla che potesse eguagliare un ritorno a casa da scuola sotto la neve. Era quanto di meglio la vita avesse da offrire. La neve era l'infanzia, protetta, spensierata, amata, ubbidiente". 

Una sensazione che per Roth  - in questo senso è corollario opposto alla mia sensazione quotidiana - è memoria di felicità ormai perduta, lui, successivamente disperso (ma per noi lettori: per fortuna)  nell'ossessione narrativa dell'insussistenza della vita e nella torsione di ogni senso verso l'immersione nella realtà del primato della decadenza e dell'umiliazione dei corpi.
Avevamo la felicità in quei passi nella neve. Dove se n'è andata? 

Analogamente, il miglior Michel Houellebecq, quello cupo e abissale de "Le particelle elementari", da leggere solo ed esclusivamente se si è di ottimo umore, altrimenti la via verso lo Xanax è spianata, scrive:
"I nonni di Marc abitavano in un appartamento molto bello in Boulevard Edgar Quinet. Gli edifici borghesi del centro di Algeri erano costruiti sul modello di quelli hausmaniani di Parigi. Un corridoio lungo venti metri attraversava l’appartamento e sfociava in un salone dal cui balcone si dominava la città bianca. Anni e anni più tardi, ormai quarantenne disincantato e acido, Marc avrebbe ripensato più volte a una particolare immagine: se stesso a quattro anni in sella al triciclo, che sfrecciava nel corridoio pedalando con tutte le forze fino al varco abbacinante del balcone. Molto probabilmente quei momenti furono il suo culmine di felicità terrestre".

L'infanzia felice che può cristallizzarsi in un ricordo immobile, o diventare motore quotidiano di ogni senso futuro.

domenica 27 giugno 2021

Finisco di girare la polenta e arrivo



Lei è Debora. Lui è Michele. 
La prima cosa che mi ha detto Debora è stata: "Ben arrivato! Finisco di girare la polenta e arrivo".
Lui, invece, mi ha subito preso per il culo: "Sei ancora immerso nella nebbia". In effetti avevo gli occhiali appannati - visibilità zero - dopo la breve camminata che dalla Baita del Sole mi aveva portato al Rifugio Duca degli Abruzzi al lago Scaffaiolo. 

Debora e Michele lavorano al rifugio e, la sera in cui sono arrivato, c'erano solo loro due. E io ero l'unico ospite del rifugio, tutta la camerata per me (mai capitato prima in vita mia). 

Insomma, eravamo in 3.

A cena, dopo avermi portato la zuppa di farro con verdure, si sono seduti nel tavolino di fianco al mio. Due ragazzi normali, lui 25, lei poco sopra i 30. I ruoli si sono azzerati subito, non c'erano un cliente e due ragazzi che collaborano alla gestione del rifugio, c'erano tre persone a chiacchierare dopo cena, con il vento che urlava fuori dalle finestre del rifugio.

Debora laureata in Restauro dei materiali archivisti e librari, fotografici e digitali. 

Michele in ingegneria gestionale. 

Debora a un certo punto, quando si era ritrovata nel bel mezzo della riforma universitaria, aveva rischiato di perdere una decina di esami fatti. S'è incazzata molto, ha mollato tutto e tutti ed è andata in Spagna "a cercare un Paese migliore del nostro". Poi però è tornata, ha ripreso i libri in mano e si è laureata.

Michele ha provato a fare un lavoro in ufficio, a Hera, ma la sua anima è quella del viaggiatore. Dopo la laurea, una mattina, ha pensato: parto. Ed è andato un anno in Sudamerica, pagandosi quell'anno con i risparmi dei lavoretti che ha fatto tutte le estati da quando aveva 16 anni. Il gene del viaggio gliel'hanno passato i suoi, globetrotter veri, mica tiktoker. Quando suo padre, negli anni 90, aveva detto a sua madre: andiamo al campo base dell'Everest, poi giriamo tra Nepal e Tibet, lei gli aveva riposto: si, ma quando torniamo voglio un figlio. Ed ecco Michele. Ed ecco anche la sorella di Michele.

Debora invece mi racconta che si possono salvare i libri dalle alluvioni, lei ci ha fatto la tesi, concentrandosi sull'alluvione modenese della zona di Bomporto. Bisogna congelarli, i libri, con una tecnica particolare, in modo che i cristalli di ghiaccio siano di una certa grandezza. Poi, quando sarà il momento, si scongelano e si salvano. E nel frattempo mi parla di sua mamma, che - quinta, dopo 4 fratelli maschi - le ha insegnato l'arte di tirarsi su le maniche per pensare ai maschi, che da soli non ce la possono proprio fare.

Michele ha trovato l'amore nell'emisfero sud, ma ora con la sua ex spagnola, conosciuta in Sudamerica - in Argentina, se non ricordo male - è finita. In Sudamerica nessun programma: alzarsi e pensare lì per lì come passare la giornata. Surfare nei due oceani, viaggiare tutti i giorni: "Quando viaggi capisci che abbiamo veramente culo a vivere in Italia, perché il mondo è bello da vedere, ma quel che abbiamo noi non ce l'ha nessuno. Prova ad aver bisogno di un medico in Perù, poi mi dici".

Debora fa yoga, ma lo dice quasi ridendo: "e chi ce l'ha un'ora al giorno con i ritmi qui al rifugio??. Al mattino mi metto qui fuori, all'alba, dieci minuti, ma solo per sciogliere le tensioni cervicali, un po' quelle lombari. Però si sta bene. Anche di testa".

Se devono trovare un momento identitario per le loro generazioni slittano dritti alle Twin Towers, perché del resto c'è poco che ti si attacchi davvero addosso. Però la nonna di Michele era una staffetta partigiana, quindi la sua testa è ben piantata anche nel Novecento, con l'orientamento corretto.

Debora teme l'americanizzazione della sanità, Michele la rassicura. Michele dice che un tizio conosciuto in Brasile gli ha regalato la tavola da surf, e pochi mesi più tardi si sono rivisti in tutt'altra parte del mondo, quindi lui si è sfilato la tavola da sotto il braccio e gliel'ha restituita, le onde che aveva cavalcato lo avevano riempito di energia.

Michele, che non ha mai difficoltà nel trovare un nuovo lavoro quando serve, dice che viaggiare vuol dire non programmare: "Mi alzo al mattino e decido". Debora è un po' intimorita dall'ignoto, ha bisogno di programmare, e questo per ora la frena dall'idea di viaggiare come Michele. 

Debora ha risposto all'annuncio per lavorare al rifugio, ma nel frattempo ha ricevuto una proposta per lavorare nel suo campo. E' terrorizzata dall'idea di andare in un posto in cui la sua creatività di restauratrice venga asfissiata dalle menate della burocrazia e delle gerarchie. Guarda fuori dalla finestra, è buio, ma nel rifugio si sta bene.

Michele le chiede se può finire anche la sua parte di stufato e polenta, Debora glielo passa.

Michele è ripartito per la Spagna. Ma tornerà al Rifugio Duca degli Abruzzi in luglio molto probabilmente. Debora aspetta di fare il colloquio per quel posto.

I giovani non hanno passioni, non hanno vite intense. Dicono. Ma ti imbatti in questi due, identici a tanti loro coetanei, laureati, padroni delle loro vite in ogni scelta professionale e personale, che ti accolgono mentre fuori si alza la nebbia. 

Tornare al rifugio, e non trovarli, non sarà la stessa cosa di quella sera, in cui lei ha finito di mescolare la polenta e lui mi ha preso per il culo per gli occhiali appannati.

domenica 25 aprile 2021

Sicuramente non nelle migliori famiglie

 

Invoco il primo dei dieci diritti del lettore: il diritto di non leggere.
Di non leggere, anche se l'ho già fatto, "Nelle migliori famiglie", il nuovo romanzo di Angelo Mellone, di cui avevo letto una recensione - un peana, per meglio dire - di Aldo Cazzullo.

Sobriamente, Cazzullo così introduceva il tema in una mezza paginata sul Corriere della Sera una ventina di giorni fa: "Nel tempo in cui ci si sposa sempre di meno e ci si separa sempre di più, viene quasi scontato chiedersi se la crisi del matrimonio — la forma istituzionale del giuramento di amore eterno — sia davvero irreversibile. È una questione di egoismo sociale, di debolezza dei legami, di narcisismo diffuso? Ci pensa ogni tanto qualche saggio scientifico e ogni tanto ci pensa la letteratura"

Ci pensa la letteratura. Ci pensa il romanzo di Mellone, a cui Zincone affida il ruolo di stella polare per illuminare (l'Occidente in particolare) la roadmap su cui il matrimonio sta navigando solo apparentemente a vista.

Probabilmente sbilanciato da aspettative siderali, attendo che il romanzo decolli, perché nelle prime 50 pagine ha la consistenza della carta velina. Scrittura fluida, solidità latitante. Aspetto che l'intreccio tra le biografie dei personaggi e la trama mi permetta di pensare tra me e me ogni tanto almeno un "ah cazzo, però", ma niente. E nessuna notizia sul destino dell'istituzione-matrimonio.

E qui mi tocca a dare ragione - ahimè - a Davide Baruffi, che per indicare la fragilità dei romanzi, intesi proprio come forma di narrazione, un giorno mi ha ricordato una frase folgorante di Leo Longanesi: 

"Flaiano è come me. Né io né lui ci rassegneremo mai a scrivere una frase come: "Ella staccò la fronte dal vetro della finestra e venne verso il centro della stanza". Purtroppo un romanzo esige anche passaggi banali: nemmeno Tolstoj può esimersene. Flaiano, come me, preferisce rinunziare al romanzo". 

Il punto è che di passaggi banali è pieno il libro, ma soprattutto a un certo punto si staglia in tutta evidenza un'altra verità scolpita nella pietra, sempre da Flaiano, e cioè che "Un buon scrittore non precisa mai". E invece va esattamente così. Va che dai personaggi non arriva niente, dalla trama manco a parlarne, immersa com'è - paradossalmente nel tentativo di uscirne - di confermare una serie infinita di cliché sulla famiglia contemporanea.  L'escamotage narrativo, alla fine, è una voce narrante fuori campo che di tanto in tanto raccorda gli eventi, spiegando - appunto - quale sia il senso di quel che si è appena letto o che si sta per leggere. Che è più o meno come quell'attimo glaciale in cui si sente la necessità di dover spiegare una barzelletta appena raccontata.

E tutto avviene nelle ultimissime pagine, che a voler pensare male sembra di sentire l'editore che dice all'autore di darsi una mossa a finire il romanzo, che qui bisogna pubblicare al più presto dai dai dai. E così, una vicenda che avrebbe meritato almeno altre 200 pagine di ossigeno per dispiegarsi in tutta la sua potenza (e soprattutto lasciare che siano i personaggi a parlare), si infila in un imbuto di 3 pagine in cui tutto viene a capo. Con l'aggiunta di una paginetta finale con un elemento oggettivamente catastrofico per la trama, ma che buttato lì sembra quasi un'appendice dimenticata negli appunti e recuperata al volo per non lasciarla nel cassetto.






martedì 26 gennaio 2021

Ok, panico.


Anche se al Bar Jolly a Vittorio hanno vinto mezzo milione di euro al Gratta e Vinci, io quel bar me lo continuerò a ricordare per tutt'altro, per uno dei momenti di massimo panico della mia vita, ma - soprattutto - per una delle reazioni più coraggiose (della mia vita, ça va sans dire).

Dunque, eravamo dalle parti degli anni Ottanta, direi 1984. Liceo scientifico, fine anno scolastico, pagella a precipizio, matematica ecatombe, fisica livello terrapiattista, filosofia orientamento Tv Sorrisi e Canzoni.

Teorico perenne del bicchiere mezzo pieno, non ho dubbi: ce la posso comunque fare.

Quelle giornate di fine anno in cui hai 5 ore, 4 inutili, ma la quinta ti giochi l'anno: interrogazione di chimica per evitare la bocciatura, per poi sbandierare 3 materie a settembre come un assoluto trionfo accademico. 

Che fare? Saltare le prime 4 ore e - lo so, sembra incredibile - studiare 240 minuti ininterrottamente chimica per entrare solo alla quinta ora, offrirsi volontario e salvare l'anno.

In classe non si può studiare. Dove, allora? Vicino a scuola, tipo in un bar. Marinare, bigiare, ecc ecc, da noi di diceva: bruciare.
Ok, brucio 4 ore e entro la quinta.
Unico rischio mortale durante la sosta di 4 ore al bar: #farsitrovaredaigenitori.

C'è un rischio di livello siderale: mio papà, che di solito con la ditta per cui lavora è sempre lontano, proprio in quei giorni lavora non solo a Vittorio, ma proprio a metà strada tra il bar e la scuola.

Dai, non verrà proprio in questo bar. 

Il mio compagno di bruciate, quella mattina, è Sergio. Stesso schema, stesso bar, stessa materia. Ci faremo interrogare insieme. 

Metto a punto un piano INFALLIBILE: mi siedo dando la schiena all'ingresso, così passo inosservato. Sergio si siede di fronte a me e può vedere chi entra. Se sta per entrare uno che corrisponde a questo profilo:
[Uomo robusto di circa 50 anni, barbone folto] vuol dire che è mio papà, e quindi mi deve avvertire.

Passa un quarto d'ora. Sergio mi chiede: "Eo to pare quel là?" 

Brivido.

Mi giro: mio papà è al banco con un collega, beve un caffè.

Sorvolando sul fatto che Sergio non ha fatto l'unica cosa che avrebbe dovuto fare -  avvertirmi PRIMA che entrasse - capto la provvisorietà del mio piano, tipo non aver previsto la risposta a questa domanda: cosa faccio se entra mio papà?

Mappo mentalmente il posto per individuare vie di fuga, armadi in cui nascondermi, palme dietro cui mimetizzarmi, parrucche da indossare, cabine telefoniche dentro cui inabissarmi. Non c'è alcuna possibilità.

Scelgo l'opzione eroica.
Mi faccio vedere, non c'è altro da fare.
Andrò incontro al mio destino con dignità. Abbandonerò la scuola, per me un orizzonte di lavori forzati per i successivi 30 anni come sottoaiutante manovratore di betoniere nei cantieri o tosatore di yak sui pascoli dell'Alto Adige. E dopo, ma solo dopo, potrò riprendere a studiare.

Vado dritto verso il banco del bar: ciao papà!
Silenzio sbigottito, mi guarda sorpreso: "Ciao, cosa fai qua"?

"Studio". 

Ecco, io ricordo ancora distintamente la risata a quella risposta, un vero gesto di clemenza istantanea, che mi avrebbe inaspettatamente proiettato leggero verso l'interrogazione di chimica e a godermi il trionfo di sole 3 materie a settembre.


venerdì 18 settembre 2020

Non ha tempo da perdere

Mattino, un bar, prima periferia di Modena.

Osservo uno dei baristi. Sessant'anni, giù di lì.
Mai visto prima, eppure qui ci passo abbastanza spesso.
Quasi calvo, tenace nel non dichiarare sconfitta al deserto che avanza tra i capelli, si affida a un riporto grottesco, commovente nel tentativo fallito.
Poche parole, sempre gentile, postura rassegnata.
Ma gentile davvero, con tutti.
Buongiorno dica un cappuccino un caffè prego sono quatto euro il bagno è dietro la colonna zucchero bianco o di canna caffè macchiato questa è vegana con la marmellata  un goccino d'acqua arrivo ristretto di soia.
Vado alla cassa: "Pago un cappuccino e una brioche", dico.
Una voce riempie il bar, potente come una testata data con violenza per spaccare un setto nasale.
OOOOOOOHHHHHH, A ME NON MI SERVI????
PORCA TROIA, SONO QUA DA DIECI MINUTI, NON MI SERVI A ME? EH??
Silenzio nel bar.
Giro lo sguardo.
Avrà 25 anni. Capelli rasati sulle tempie, occhiali a specchio, maglia ampia da basket, pantaloni corti, mano destra a domandare che cazzo aspetti a servirmi.
STAI SERVENDO TUTTI TRANNE ME CHE SONO QUA CHE ASPETTO.
Silenzio nel bar.
Nessuno guarda nessuno. 
Scusi, scusi, dice il barista, molla tutto e si piazza davanti al tizio per esaudire i suoi desideri.
DAMMI QUESTA AL CIOCCOLATO E UNA VUOTA. POI UN CAFFÈ MACCHIATO.
Ecco, dice il barista, che si scusa per la terza volta.
Silenzio nel bar.
DAMMI ANCHE UN BICCHIERE D'ACQUA.
Si eccolo.
Si allontana, si siede a un tavolino.
Mentre provo a pagare, si avvicina di nuovo verso il bancone.
Mastica a bocca spalancata la brioche, potrei contargli le otturazioni dei denti.
GNAMMI ANGHE UN CAPUGGNINO.
Meglio di così, a bocca piena, non gli riesce.
Pronti col cappuccino.
Torna al tavolino.
Silenzio nel bar.
Dopo qualche secondo arriva sua madre, guarda la brioche e sentenzia: questa non mi piace.
Il tizio si alza, prende la brioche: CAMBIA LA BRIOCHE DI MIA MAMMA. SI PUÒ? QUESTA NON LE VA BENE.
Pronti, cambio della brioche.
Il barista continua a scusarsi.
Silenzio nel bar.
Pago.
Esco.
Una telefonata prima di salire in macchina, accendo il motore, parto.
Lo vedo uscire dal bar, si dirige con sua mamma verso una Bmw.
Autostrada.
Sullo specchietto retrovisore vedo il tizio sulla Bmw che si avvicina ai 200 all'ora, sorpassa a destra e sinistra, zig zag tra le corsie, abbaglianti, toglietevi dai coglioni che non ho tempo da perdere.


lunedì 3 agosto 2020

Implacabile nell'odio, tenace nel rancore

 
Saranno stati gli elefanti, fatto sta che fin da piccolo la figura di Annibale mi ha sempre incuriosito. Questo generale vissuto duecento anni prima di Cristo, che valica le Alpi e viene a razzolare in Italia inanellando vittoria su vittoria, fino alla legnata fragorosa a Canne in cui polverizza in mezza giornata il fior fiore dell'esercito romano (50mila morti nella stima più prudente, 75mila in quella più generosa), mi ha sempre appassionato. Storicamente parlando.

Ma è di scrittura che vorrei parlare.

Si, perché la scorsa settimana mi sono letteralmente fatto rapire dal libro di Giovanni Brizzi: "Canne. La sconfitta che fece vincere Roma - Il Mulino), che mi ha appassionato dalla prima all'ultima riga, soddisfacendo fino all'ultima delle mie curiosità, ma aprendo anche nuovi inaspettati spazi di desiderio di conoscenza.
Un vero dispiacere arrivare all'ultima pagina, come lasciare un affetto.
 
Tra le mille cose che mi hanno colpito, una, che probabilmente per l'autore credo rappresenti un dettaglio quasi marginale, ma che invece mi ha folgorato per la lucidità di riuscire a sintetizzare in poche righe il profilo storico-biografico e psicologico di Quinto Fabio Massimo (Il temporeggiatore), uno dei dittatori romani che aveva provato (inascoltato, poi sostituito al comando) a disinnescare la potenza d'urto che Annibale dimostrava nella calata lungo il Paese, sostanzialmente negandogli la possibilità dello scontro in campo aperto.

Dicevo, la descrizione di Quinto Fabio Massimo. 
Una descrizione che tiene insieme, uniti a saldare in maniera perfetta gli elementi storici e psicologici del personaggio, un ritratto in cui sembra di calarsi a piè pari in quell'epoca, proprio lì di fianco al personaggio descritto. Nessuna distanza, tutto straordinariamente "instant", se posso dire, in cui si possono intravvedere molti elementi di contemporaneità rispetto al profilo della leadership intesa in senso allargato. 
Una lucidità tenuta insieme da una scrittura che solo un grande autore, in questo caso un superbo storico bolognese, può permettersi. 

Eccola:

"In effetti quest'uomo ormai maturo era un soldato di prim'ordine, esperto e temprato a ogni prova. 
La tranquillità silenziosa e l'ingannevole mansuetudine che gli avevano guadagnato l'ironico appellativo di Ovicula, la Pecorella, coprivano, in realtà, la saldezza di un carattere inflessibile, in cui la circospezione non era che accorta prudenza e l'apparente lentezza imperturbabilità totale rispetto a ogni stimolo esterno.
D'origine contadina, Fabio Massimo era duro ben al di là di ogni manifestazione superficiale, implacabile nell'odio e tenace nel rancore, provvisto di un'energia senza pari. 
Metodico, costante, ostinato e dotato di una pazienza a tutta prova, era, e lo dimostrò, capace di lungimiranza come di fede: possedeva un fortissimo spirito di sacrificio ed era animato da un patriottismo feroce, capace di fargli dimenticare persino il personale, profondissimo orgoglio".