lunedì 3 agosto 2020

Implacabile nell'odio, tenace nel rancore

 
Saranno stati gli elefanti, fatto sta che fin da piccolo la figura di Annibale mi ha sempre incuriosito. Questo generale vissuto duecento anni prima di Cristo, che valica le Alpi e viene a razzolare in Italia inanellando vittoria su vittoria, fino alla legnata fragorosa a Canne in cui polverizza in mezza giornata il fior fiore dell'esercito romano (50mila morti nella stima più prudente, 75mila in quella più generosa), mi ha sempre appassionato. Storicamente parlando.

Ma è di scrittura che vorrei parlare.

Si, perché la scorsa settimana mi sono letteralmente fatto rapire dal libro di Giovanni Brizzi: "Canne. La sconfitta che fece vincere Roma - Il Mulino), che mi ha appassionato dalla prima all'ultima riga, soddisfacendo fino all'ultima delle mie curiosità, ma aprendo anche nuovi inaspettati spazi di desiderio di conoscenza.
Un vero dispiacere arrivare all'ultima pagina, come lasciare un affetto.
 
Tra le mille cose che mi hanno colpito, una, che probabilmente per l'autore credo rappresenti un dettaglio quasi marginale, ma che invece mi ha folgorato per la lucidità di riuscire a sintetizzare in poche righe il profilo storico-biografico e psicologico di Quinto Fabio Massimo (Il temporeggiatore), uno dei dittatori romani che aveva provato (inascoltato, poi sostituito al comando) a disinnescare la potenza d'urto che Annibale dimostrava nella calata lungo il Paese, sostanzialmente negandogli la possibilità dello scontro in campo aperto.

Dicevo, la descrizione di Quinto Fabio Massimo. 
Una descrizione che tiene insieme, uniti a saldare in maniera perfetta gli elementi storici e psicologici del personaggio, un ritratto in cui sembra di calarsi a piè pari in quell'epoca, proprio lì di fianco al personaggio descritto. Nessuna distanza, tutto straordinariamente "instant", se posso dire, in cui si possono intravvedere molti elementi di contemporaneità rispetto al profilo della leadership intesa in senso allargato. 
Una lucidità tenuta insieme da una scrittura che solo un grande autore, in questo caso un superbo storico bolognese, può permettersi. 

Eccola:

"In effetti quest'uomo ormai maturo era un soldato di prim'ordine, esperto e temprato a ogni prova. 
La tranquillità silenziosa e l'ingannevole mansuetudine che gli avevano guadagnato l'ironico appellativo di Ovicula, la Pecorella, coprivano, in realtà, la saldezza di un carattere inflessibile, in cui la circospezione non era che accorta prudenza e l'apparente lentezza imperturbabilità totale rispetto a ogni stimolo esterno.
D'origine contadina, Fabio Massimo era duro ben al di là di ogni manifestazione superficiale, implacabile nell'odio e tenace nel rancore, provvisto di un'energia senza pari. 
Metodico, costante, ostinato e dotato di una pazienza a tutta prova, era, e lo dimostrò, capace di lungimiranza come di fede: possedeva un fortissimo spirito di sacrificio ed era animato da un patriottismo feroce, capace di fargli dimenticare persino il personale, profondissimo orgoglio".