martedì 12 dicembre 2017

Micaela e il veleno dei ricordi

La bambina sul letto d'ospedale sulla sinistra è Micaela Coletti a 12 anni, che riceve la visita della principessa Titti di Savoia.
Quella sulla destra è sempre lei, oggi, a Longarone, dove vive da quando è nata.
La sua storia mi è tornata in mente qualche giorno fa dopo aver ascoltato "Veleno", lo straordinario  podcast di sette puntate su Repubblica.it che racconta la vicenda di 16 bambini della bassa modenese, sottratti per sempre 20 anni fa alle loro famiglie in seguito alle accuse mosse dagli stessi bambini ai loro genitori di essere dei pedofili satanisti e, per questi motivi, incarcerati per anni.
Un'inchiesta drammatica, basata su una serie di racconti dei bambini che, in seguito, si sono rivelati completamente falsi. Non c'erano mai stati riti satanici, sgozzamenti di animali, infanticidi e altri riti.
Alla base di tutto c'era quello che viene tecnicamente chiamato il "falso ricordo".
Così Pablo Trincia, autore dell'inchiesta, sintetizza:

"Gli psicologi studiano questo fenomeno da anni per stanare la grande "bestia nera" della nostra memoria: il falso ricordo. Un ricordo non è mai una fotografia precisa del passato, è più simile ad un disegno fatto da noi. Il ricordo infatti è plasmato dalla nostra visione del mondo, dalle nostre esperienze passate, dal momento che stiamo vivendo e dall'immaginazione, che può contaminarlo. A volte solo nei dettagli, ma altre in maniera talmente radicale da creare memorie di eventi che non abbiamo mai vissuto".

Nell'episodio 5 dell'inchiesta, uno dei bambini, oggi 30enne, si dice certo di non aver mai parlato all'epoca ai giudici di omicidi, abusi, pratiche sataniche ecc. E, di fronte al video di 20 anni fa che gli fanno rivedere e che lo ritrae mentre accusa i genitori, rimane sbigottito perché non ricordava affatto di aver detto niente del genere.
All'epoca ne era invece talmente sicuro al punto da inchiodare i genitori con accuse che li avrebbero portati in carcere. Ma era tutto inventato. Inventato, ma assolutamente necessario da inventare per sostenere la pressione degli interrogatori a cui lui e i suoi piccoli coetanei erano sottoposti da parte dei giudici e degli assistenti sociali. Oggi ha cancellato tutto, anche se in realtà non c'era niente da cancellare, perchè era tutto finto.

E qui arriva, per assonanza - anche se parliamo di cose completamente diverse - la vicenda di Micaela Coletti.
La notte del 9 ottobre 1963 l'onda del Vajont spazzò via anche la sua casa. Lei fu scaraventata a 400 metri di distanza. Venne trovata la mattina successiva completamente sepolta dal fango, tranne una mano che si muoveva e che spinse i soccorritori ad avere particolare cautela nell'estrarla e salvarle la vita.
Quando aprì gli occhi e vide il nulla intorno a sè - il paese polverizzato, i parenti scomparsi - si innescò immediatamente un meccanismo di difesa che la portò a pensare di essere dentro a un sogno: "Pensavo di sognare - mi ha raccontato qualche anno fa Micaela - Tutto ciò che vedevo intorno era talmente irreale che per forza stavo sognando".
Un meccanismo di difesa talmente potente da farle sostituire la realtà con un'altra narrazione completamente distorta, ma che in qualche modo aveva il potere di sedare l'ansia e il dolore.
Non era un "falso ricordo" come per i bambini di cui abbiamo parlato prima, ma il meccanismo è simile, anche se speculare: un finto presente. Un finto presente, distorto, per accomodare le cose.
Micaela aveva 12 anni quando ha iniziato a pensare di vivere dentro un sogno.
Riuscite a immaginare quanto può durare una situazione così?
Ve lo dico io: 6 anni.
Micaela ha pensato di vivere dentro un sogno per 6 anni.
Una vita sospesa.
A 18 anni, dopo essersi sposata, è rimasta incinta. Ma ha perso la bimba al quinto mese di gravidanza, esattamente in occasione del sesto anniversario dell'onda.
"Solo in quel momento esatto mi sono svegliata. E' stato come prendere improvvisamente coscienza in un attimo che tutto ciò che per anni scambiavo per un sogno era invece assolutamente reale".
E, da lì, una seconda vita. Tutta in salita, ma vera.




martedì 28 novembre 2017

La Cina che ho visto, tra Blade Runner e tradizione.

Shanghai Exhibition Centre. L'edificio, fino al 1980, con i suoi  110 metri scarsi, era il più alto di tutta la città. Oggi è un nanerottolo che scompare sommerso in un oceano di grattacieli in cui vivono gli oltre 24 milioni di abitanti della megalopoli.
Un'imbarcazione lungo lo Zhujing River a Canton
Una veduta di Canton (Guangzhou)



Canton - Un negozio nei pressi di Shamian Street, Canton

Canton

Canton - Nel traffico caotico della metropoli è facile imbattersi in mezzi come questi che trasportano materiale di ogni tipo

I palazzi di Canton danno l'idea dell'iperaffollamento. Veri e propri alveari urbani.

Canton - Lo skyline sullo sfondo, in primo piano un centro commerciale

Lungo la strada che ci conduce all'aeroporto, falce e martello troneggiano. .

Aeroporto di Canton

Tradizione e modernità all'Exhibition Centre di Shanghai

Interni dello Shanghai Exhibition Center, palazzo donato da Stalin alla città di Shanghai, liberty sovietico. 

Shanghai Exhibition Center - Fotografi al Salone del Mobile
Shanghai Exhibition Center 


L'atmosfera di Blade Runner del Pudong, lo spettacolare e futuristico skyline di Shanghai. L'edificio sulla destra, la Shanghai Tower, è alta 632 metri, ha 128 piani ed è il grattacielo più alto della Cina ed il terzo più alto al mondo.

Shanghai. L’edificio in Xingye Lu che nel 1921 ha ospitato, in gran segreto, il Primo Congresso del Partito Comunista Cinese.

Shanghai - Il quartiere della Concessione Francese. La Concessione francese fu una delle principali enclave europee di Shanghai dalla metà del XIX secolo fino a poco prima della Seconda Guerra Mondiale. Oggi il quartiere è di nuovo il luogo preferito dagli emigranti che vivono a Shanghai. 

Shanghai. I motorini a Shanghai sono tutti elettrici. La municipalità di Shanghai, per limitare le emissioni inquinanti, disincentiva l'utilizzo delle moto di grossa cilindrata al punto che la semplice immatricolazione ha un costo che si aggira sui 40mila euro

Shanghai - Alveari urbani nella zona nord ovest

Shanghai - Alveari urbani nella zona nord ovest

Shanghai - Dietro le costruzioni popolari, svettano i palazzi più recenti
Pechino, periferia.

Pechino. La sede di AQSIQ. AQSIQ è un organo amministrativo ministeriale direttamente sotto il Consiglio di Stato della Repubblica popolare cinese responsabile della qualità nazionale, la metrologia, controllo delle materie prime di entrata-uscita, entrata-uscita di quarantena sanitaria, entrata-uscita di animali e piante quarantena, import-export di sicurezza alimentare , certificazione e accreditamento, standardizzazione, nonché amministrativo forze dell’ordine.

Pechino - Un militare all'ingresso della sede della AQSIQ

Un raro cielo azzurro sopra Pechino. È così perché c'è un vento molto freddo, ma non gelido. È un vento che nasce in Siberia, attraversa senza ostacoli le pianure sconfinate della Mongolia e infine investe la capitale. Che, ogni tanto, può respirare.

Pechino - La sede dell'Ambasciata d'Italia in Cina

Pechino - Un telefono pubblico all'interno di un hotel

Pechino 

Pechino

Pechino - Lo Yonghe Gong (Convento dei lama) è un monastero buddhista.  Fu costruito nel 1694 per ordine dell'imperatore Kangxi, come testimonianza della devozione tipica della sua Casa per il Buddhismo tibetano, e dell'attenzione che il Celeste Impero nutriva per il Tibet, da poco incorporato nella sua signoria, e per i mongoli, anch'essi seguaci dei lama.
Pechino - Lo Yonghe Gong (Convento dei lama)


Pechino - Lo Yonghe Gong (Convento dei lama)

Pechino - Lo Yonghe Gong (Convento dei lama)

Pechino - Palazzi in costruzione

Pechino
Canton - Una squadra di operai all'esterno dell'aeroporto. Tutta la zona è in ristrutturazione in attesa della visita del Presidente Xi Jinping

Canton - Il simbolo della falce e martello ai caselli autostradali

Canton - Segnaletica stradale

Canton - Edifici popolari

Canton - Lo skyline luno la riva dello  Zhujing River 

La bevibilissima birra cinese

martedì 3 ottobre 2017

Trump, un "amico vero" dei produttori di armi alla Casa Bianca

Il contrasto alla diffusione delle armi negli USA è nelle mani di Trump. Che al meeting dell'associazione dei produttori di fucili assicura: "Avete un vero amico ora alla Casa Bianca"

domenica 17 settembre 2017

Un uomo, 4 ruote, 1 buffet.

L'uomo nella foto si chiama Beppe.
E' l'ultimo autista della Regione, ed è andato in pensione pochi giorni fa.

Dal 1980 ad oggi ha percorso in macchina quasi 3 milioni di chilometri, più di 70 volte il giro della Terra, accompagnando presidenti, assessori e funzionari alle iniziative istituzionali.
Un paio di giri della Terra, negli ultimi 3 anni, li ho fatti con lui, seduto al suo fianco.
Ed è stato lì, giorno dopo giorno, tra caselli autostradali, rotatorie, cavalcavia, sensi unici, ingorghi e  semafori che ho capito che per un equivoco spazio-temporale Beppe è in realtà un personaggio del Bar Sport di Stefano Benni, uscito dalle pagine del libro per piombare sulla viabilità dell'Emilia-Romagna.

La partenza
Beppe non parte con la macchina. Lui decolla.
Gode con un sospiro a pieni polmoni il rumore del "clac" quando innesta la prima, partendo con un'accelerazione 8G che risucchia i passeggeri dentro la fodera dei sedili, in cui ancora oggi si possono trovare una scapola di Pierluigi Bersani, tre dita di Raffaele Donini,  una rarissima giacca slim-size di Vasco Errani e gli appunti del discorso che Lanfranco Turci avrebbe dovuto fare alla convention dei parrucchieri di Zerba.
Due decimi di secondo dopo la partenza, di solito c'è un semaforo rosso. La decelerazione proietta i passeggeri fuori dal parabrezza. Un consigliere del Pdup, catapultato dentro la vetrina di una pizzeria d'asporto nel 1981, ha dato vita al primo caso di esproprio proletario agroalimentare, uscendone con un arancino sottobraccio.

Le rotatorie
Considerate poco meno che una bizzarra concessione alla modernità, Beppe affronta le rotatorie come un rettilineo autostradale. Nel 2016, dopo il passaggio sulla rotatoria al casello di Imola, l'auto ha proseguito su due ruote inclinata su un fianco fino a Fidenza, parcheggiando direttamente nel guardaroba del sindaco Andrea Massari, di cui Beppe ha contestato il look.

La discrezione
Fieramente impermeabile alla regola secondo cui un buon autista deve mostrare indifferenza verso le conversazioni telefoniche dei passeggeri, Beppe annuisce costantemente con cenni parabolici del capo per assentire o dissentire durante le telefonate, qualche volta con zelo sufficiente a impattare sul volante e attivare l'airbag.
Nel 2001, all'autogrill Roncobilaccio Ovest, approfittando di una pausa-Camogli dell'assessore al turismo, ha telefonato al ministro delle Infrastrutture per chiudere un accordo per la costruzione di un cavalcavia ad unica campata tra Rimini e Comacchio.

L'autostrada
Beppe infila la corsia del Telepass ai 270 all'ora, spettinando i casellanti ("fa bene alla forfora", spiega). Ligio alle regole della circolazione, punta l'auto davanti a sé piazzando il muso della sua Volvo a mezzo centimetro dal paraurti posteriore di chi lo precede ("E' per metterlo a suo agio", assicura). Durante il sorpasso usa il terzo occhio per guardare l'auto di fianco, indirizzando con l'alfabeto muto giudizi severi al conducente sulla qualità della sua guida, talvolta irrobustiti da riferimenti a madri e sorelle.

Il taglio del nastro
Beppe odia i convegni, ama i tagli del nastro, in particolare quelli delle fiere paesane.
Al "settembre copparese", prima dell'avvio della cerimonia, di solito parcheggia sulla sedia del sindaco, chiedendo all'assessore ai trasporti di rabboccare l'olio del motore.
E' solito contestare l'utilizzo delle forbici per il taglio del nastro, e ricorda sempre che Guido Fanti inceneriva la striscia di stoffa con uno sguardo.

Il buffet
E' il cuore della missione.
All'ingresso della sala Beppe attiva i sensori "istituto alberghiero" inseriti nella retina, progettati da una startup scovata da Aster, che permettono di mappare all'istante la dislocazione di olive ascolane, culatello, gnocco fritto, lambrusco e sangiovese
Estrae dal baule un kit di otto braccia che lo favorisce nella raccolta simultanea di scaglie di grana, cubetti di mortadella, cous-cous e farro.
Nel 2002 è stato candidato al Nobel per la Fisica per aver dimostrato che un piattino di plastica può contenere 36 tramezzini, 14 tartine, 18 palline di ricotta, 2 muffin allo speck e un taxista di passaggio.

Dopo circa un quarto d'ora dice ad alta voce "è finito l'erbazzone", distraendo l'attenzione dei commensali dal tavolo per poter trafugare l'ultimo blocco di ciccioli.
Quando la concorrenza è più agguerrita, indossa una divisa da cameriere per depistare gli ospiti e li invita a servirsi del buffet al secondo piano, dove di solito è invece in corso una conferenza sui mammut o, nei casi più fortunati, sulla riforma fiscale.
Alla domanda "Allora Beppe, com'era il buffet?" risponde automaticamente "Non so, ho preso solo un caffè. Ristretto".

Ci mancherai Beppe.

mercoledì 9 agosto 2017

L'incauto pellegrino


Partire per la Via Francigena da San Miniato il 6 agosto alle 10 del mattino, quando il caldo scioglie già l'asfalto e materializzi cosa prova un'aragosta mentre viene tuffata nella pentola per la cottura. 

Sentirsi comunque figo e pronto come un incrocio tra Messner e Vasco da Gama : "Ci vuole altro per scoraggiare un esploratore come me".

Inoltrarmi lungo il paesaggio lunare delle colline senesi con l'aria rovente che trasforma l'acqua nella borraccia in vin brulè. Beh, c'è caldino in effetti.

Incontrare una coppia di residenti settantenni, marito e moglie.
Lui che mi batte la manona sulla spalla: "Ammiro il tu horaggio. Ce ne vole tantissimo pe arrivà a fine tappa hamminando a quest'ora co sto sole e co sto haldo". 
Io, Grande Sprovveduto molto rinco, palleggio con l'ironia e guardo sua moglie: "Ahahaha suo marito mi sta proprio incoraggiando". 
Lei che guarda in basso con colonna sonora di campane a morto e sussurra: "Se ne accorgerà da solo".

Pensare che il cappello sia un inutile optional da turista domenicale e ritrovarsi dopo un paio d'ore con il cranio a temperatura perfetta per la frittura alla sagra della parrocchia.
Indossare il cappello quando i buoi sono già scappati.

Arrivare a fine tappa e perdersi. 
Telefonare al monastero dove alloggerò e spiegare che non trovo l'indirizzo.
Sentirmi dire "Vieni avanti 100 metri e trovi un portone". 
Arrivare, aprire il portone e dire "eccomi". Sentirsi rispondere "Ciao. Ah, oh, scusi, volevo dire buongiorno. Al telefono sembrava giovane, e invece no".

Verso sera metamorfosi della testa in modalità bollitore.
Oki. 
Effetto dell'Oki=zero.

Uscire alla ricerca di qualcosa di fresco da mangiare: frutta. 
Scovare un negozio che, oltre ad armature medioevali, lavanda, teste di cinghiali imbalsamati e salumi ha anche un angolino in cui sono stivate alcune banane, 5 pere e 4 pesche.
Scegliere le pesche sognando il refigerio del primo morso. 
Presentarsi alla cassa. 
L'elettricità che in quel momento esatto manca in TUTTO il paese e il negoziante che dice: "Vabbè, non si possono più fare scontrini, vado a casa". 
Chiude baracca. 
Niente pesche.

Temperatura della calotta cranica vicina all'altoforno.

Ripiegare verso il monastero sognando una doccia gelata. 
Trovare sulla cima delle scale la madre badessa che mi dice: "Hanno tolto l'acqua". 
Buttarla sul filosofico per fare la parte dell'esperto di monasteri e dire: "Beh dai, in fin dei conti è come vivere nel medioevo".
La badessa che mi dà una risposta da lettrice di editoriali di Recalcati: "Mi chiedo come facciano le donne nelle tribù del Ghana con le mestruazioni. Loro dicono che usano le foglie". 
Respirare, girare sui tacchi con discrezione e chiudersi in camera a doppia mandata perché insomma.

Temperatura del cranio di notte prossima alla fusione nucleare, gambe e braccia non pervenute. 
Decidersi a quel punto a chiamare la guardia medica alle 5 del mattino e chiedere un consiglio: continuare o no la Francigena?
Il medico di guardia che dice "E 'he ne so, sono un mediho, non dispenso honsigli. Venga 'he la visito".
Andare alla guardia medica. 
Predica del medico: "Vabbè a 20 anni, ma a 50 sarebbe meglio se sta' a hasa". 
Autostima livello Gasparri.

Al mattino partire dal monastero per la nuova tappa della via Francigena. 

Tornare indietro al monastero perché ho dimenticato i bastoncini da trekking.

Ripartire dal monastero. 

Tornare indietro al monastero perché ho dimenticato il cellulare in camera.

Ripartire dal monastero. 

Tornare indietro al monastero perché ho dimenticato la borraccia.

Dissimulare il tutto sui social con foto di paesaggi maestosi. 

lunedì 31 luglio 2017

Parto per una vacanza di vero lusso










Sabato parto per una vacanza di lusso. Quello vero, intendo, cioè l'assenza di ogni comodità.
A piedi, lungo un tratto della Francigena, Solo io e il mio zaino.
Niente auto, semafori, tangenziale, niente cellulare (tranne per le foto), nessun orario per i pasti, nessuna telefonata, nessuna agenda a dettare i ritmi (il ritmo lo detterà la fatica), scollegato dal mondo eppure immerso in quello vero fino al collo. Solo con la fatica e la sete, il sole che si alza e tramonta.
Niente social.
E quando ho telefonato per prenotare un posto per dormire, la risposta è stata proprio quella che ti aspetti se hai in mente una vacanza immerso in questo tipo di lusso:
"Buongiorno, abbiamo secondo Sua gentile richiesta, prenotato per Lei una camera. Ricordiamo che non possiamo purtroppo accettare carte di credito nè bancomat.Il nostro è un Monastero di clausura che ha anche una Foresteria. Tutte le nostre stanze, semplici e pulite, hanno il bagno privato e sono fornite di lenzuola e asciugamani. Non forniamo servizi in più (Internet, articoli da toletta, asciugacapelli ecc...) nè una reception aperta 24/24. L'orario di apertura per l'arrivo è 9,00-12,00 e 15,30-17,30 poi avrà la chiave del portone e non ci sono altri orari da rispettare".
Avrò le chiavi del portone di un monastero di clausura. Questo sì, oggi, che è un vero lusso.

martedì 4 luglio 2017

La mezza verità di Padre Pio a Modena Park


Insomma, non era vero.
Ma era verosimile.
E questo è bastato, ieri, a rendere virale la lista degli oggetti raccolti dalle 3 aziende chiamate a ripulire Modena Park dopo il concerto di Vasco.
Una fake news, o una post verità - come piace dire oggi - condivisa centinaia di volte sui social e ripresa da una quantità sterminata di agenzie, siti di informazione, blog.
Molto più banalmente, uno scherzo di Stefano Ferrari, amico giornalista modenese, che ha fatto una semplice operazione: ha copiato un post di un'amica che - dichiarando che si trattava di uno scherzo - aveva immaginato una lista degli oggetti ritrovati.
Ferrari ha tolto le tre righe in cui si capiva la natura chiaramente ironica del post, lo ha postato sulla propria bacheca, et voilà, ecco servita una verità plausibile.
Che meraviglia, tra sex toys, pannoloni per incontinenti, un pigiama (!), 2 stampelle, 1200 mazzi di chiavi ecc.
E, ciliegina sulla torta, una statuetta in legno di Padre Pio. Una statuetta di Padre Pio al concerto di Vasco.
La lista è entrata in circolo come il colesterolo al pranzo di Natale, gustosa e irresistibile, innescando migliaia di commenti sui social, salendo al top delle chiacchiere da bar e moltiplicando esponenzialmente i luoghi di dibattito post-Modenapark.
Nessuno, o quasi, si è posto il dubbio. Privatamente, alcuni colleghi giornalisti lo hanno fatto con Stefano, che ha subito confessato - immagino con uno straordinario sorriso ingordo - che di fake si trattava. Poi però lo hanno fatto pubblicamente i colleghi di Giornalettismo, che hanno messo in campo l'ABC della professione: hanno verificato la fonte. Hera, la multiutility incaricata della pulizia del parco, ha assicurato di non aver fatto uscire nessuna nota.
Si trattava quindi di una pura invenzione. E lo hanno scritto.
Se però oggi cercate sul web la notizia, è ancora lì, splendente in tutti i suoi 28 sex toys, nei 12 pannoloni per incontinenti, nelle 670 paia di occhiali e, naturalmente, nella sorprendente e unica statuetta in legno di Padre Pio, in buona compagnia di 120 confezioni di preservativi.
E la notizia, seppellita dalla pietra tombale della verità rapidamente recuperata dall'ottimo lavoro di Giornalettismo, rimarrà vera per sempre. Per sempre.
Anche stamattina, alla radio - a quasi 24 ore dall'evidenza che si trattasse di un falso - era trattata come una gustosa verità su cui imbastire il dibattito telefonico con gli ascoltatori.
Cosa ci insegna lo scherzo di Stefano?
Niente di nuovo.
Certifica la nostra insofferenza alla complessità, alla fatica di una domanda in più.
Ci conferma l'esistenza di una colossale area grigia in cui verità, verosimiglianze, fake news, post-verità, balle colossali e compagnia contante convivono allegramente in una rappresentazione dei fatti che, alla fine, ci accontenta.
Basta che sia vera. Anzi, verosimile.


domenica 19 marzo 2017

La mano destra di Kurt Diemberger

La mano sinistra di Kurt Diemberger appoggiata sulla mia spalla non dice molto di lui. E' la destra, a cui mancano alcune falangi, a raccontare la sua vita.
Congelate durante la spedizione al K2 nel 1986, le falangi amputate sono state solo una piccola parte del prezzo pagato a quella montagna su cui - da giovane - aveva giurato a se stesso che non sarebbe mai salito. E invece le cose della vita, lo sappiamo, prendono la piega che pare a loro e nel 1986 Kurt ci è salito. In quella spedizione Julie Tullis, la sua compagna di cordata, è morta lassù. E con lei altri due alpinisti - provati dal congelamento e piegati dalla spossatezza che a quelle quote diventa letale - non hanno mai fatto ritorno.
Chi fa dell'himalaysmo la propria ragione di vita, sa che queste sono cose da mettere in conto, in un certo senso non intaccano la passione.  Ne sono parte integrante.
Ma non confondete le cose. Per Kurt andare in montagna non è mai stata una sfida. E' stata la ragione di vita. Una sorta di precondizione per vivere. Ed è stata vita piena. Piena. Senza compromessi.
Davanti a 500 persone al centro culturale di Marano sul Panaro, l'altra sera Diemberger ha raccontato la sua vita di alpinista, himalaysta, esploratore. E ha scelto una parola che ne sintetizza il senso: glück.
"In tedesco questa parola significa sia felicità, sia fortuna. Non è come l'italiano, che ha bisogno di due parole". Una vita, la sua, in cui felicità e fortuna si sono intrecciate in continuazione, una vita spinta da un motore a cui non si può opporre resistenza: "Io volevo sapere. Non potevo fermarmi. Mai. Prendendomi dei rischi, certo. Ma senza il rischio non si va da nessuna parte, si rimane fermi. E io invece volevo sapere, andare avanti. Ad ogni costo".
Dei successi di Kurt Diemberger è stato detto tutto. E definirlo "leggenda vivente" non ha, per una volta, il sapore stucchevole della retorica a buon mercato.
Ma a me ha colpito il fronte degli insuccessi, dei fallimenti, delle disfatte. Perché è lì che si consolida il mito.
E, su questo piano, a Diemberger è toccato in sorte uno degli episodi più noti dell'epopea dell'himalaysmo, vale a dire la scomparsa di Hermann Buhl, altro mito epocale nell'ambiente.
Il 27 giugno 1957 di ritorno dal Chogolisa, nel Karakorum, dove i due ne avevano appena conquistato la vetta, Buhl precipitò dopo aver messo il piede in una cornice di neve. Il suo corpo non fu mai ritrovato e Diemberger finì al centro di assurde polemiche con l'accusa di essere in qualche modo responsabile della morte di Buhl. Accuse sempre respinte, ma che qualche anno più tardi si sarebbero ripresentate con lo stesso schema anche per Reinhold Messner, che il 29 giugno 1970 - rientrando con il fratello Gunther dalla vetta del Nanga Parbat - lo vide scomparire sotto una valanga di ghiaccio. Lo cercò per tre giorni, ma senza fortuna, respingendo poi per più di 30 anni l'accusa infamante di averlo sostanzialmente abbandonato lassù, vista la scarsa preparazione fisica, in una zona diversa da quella in cui sosteneva ci fosse stata la valanga.  Fino a quando, nel 2005, il ghiacciaio non ne restituì il corpo esattamente nel luogo che Reinhold Messner aveva sempre indicato.
Il disastro è dietro l'angolo, ma fa pare integrante di queste biografie fuori da ogni "mainstream", in un certo senso condannate ad assecondare la propria indole di dannati in cerca di conferme progressive del senso della vita.
E la sconfitta, in questo quadro, ci sta tutta. Non c'è cultura della vittoria, ma solo del percorso, che può anche avere nelle tragedie personali un elemento di crescita.

Proprio come insegna Reinhard Karl nel suo straordinario "Tempo per respirare", :

"Siamo rimasti in vita, ma è stata una sconfitta,
e le sconfitte bruciano. Ma in seguito
si vedono le montagne e il rapporto con esse
in una luce diversa. Perché forse una sconfitta
è altrettanto costruttiva quanto la paura.
Tempo per riflettere – tempo per respirare.”

sabato 4 febbraio 2017

Perché noi stavamo a giocare per strada, mica stavamo su Facebook.

Quelli  nella foto sono due campi da calcio. Sopra, quello di via Ferraris. Sotto, quello di via Pacinotti. Al posto dell'erba, l'asfalto. Al posto delle porte, due ringhiere. Ma in effetti cos'altro ci voleva? Per noi, che oggi abbiamo i capelli grigi (per chi ha ancora i capelli), questo bastava e avanzava. 
Noi, i bambini di via Ferraris, passavamo interi pomeriggi in quei 30 metri quadrati a tirare pallonate, a giocare 7 contro 7, a sbucciarci le ginocchia (perché l'asfalto è duro, non serviva Wikipedia a capirlo), a fuggire dopo aver spaccato i vetri dei vicini, a sperare di non forare il pallone quando cadeva tra i roseti dei giardini, a deformare la ringhiera a forza di gol, a darci gomitate che neanche il cartellino rosso sarebbe stato abbastanza. Sudando, esultando, correndo fino a rimanere senza fiato. Tutti i giorni, ignorando il caldo, il freddo, i richiami delle mamme dalle finestre perché era pronto il pranzo o la cena. Di fare i compiti, manco a parlarne. Le morose? Dio ce ne scampi. 
E se passava una macchina, ci si faceva da parte, però che palle, cosa ci faceva una macchina lì per strada proprio mentre giocavamo?
E i bambini di via Pacinotti, stessa cosa. Uguale.
E ci si stava veramente sulle palle, tra bambini di via Ferraris e via Pacinotti. E c'erano regole non scritte, ma accettate. Tipo che se si passava nella via dei "nemici" in bicicletta, il minimo che ci si dovesse aspettare era una pallonata, o un paio di sputi. E muti.
E dei genitori, a fare da giudici o tutori se finiva in rissa, manco l'ombra. E per fortuna, visto che chiamare la mamma o il papà era proprio da sfigati. Nessuno si lamentava. 
Anche la peggiore delle litigate per strada finiva in un niente, bastava il pallone a riportare tutto alla normalità.  Una normalità vera, che se sbagliavi un rigore i tuoi amici ti dicevano che eri un coglione, e tu sapevi che un po' era vero, ma finiva tutto lì, mica scomodavi l'introspezione per capire.
E se tua mamma ti dava un paio di sberle perché avevi strappato i pantaloni, andava bene così, mica avevi la visione di Caffo. 
E il derby tra via Ferraris e via Pacinotti - che si giocava pigiati che te lo raccomando - era una guerra vera e propria, con qualche calcio e un paio di pugni a compensare una tecnica che ciao, ma andava bene così. Che poi, vinto o perso, ero lo stesso, poi tutti in bicicletta a mangiare il gelato, che non si stava mica lì a postare le foto dei gol su Facebook. 
Perché noi stavamo a giocare per strada, mica stavamo su Facebook.


venerdì 27 gennaio 2017

Zerocalcare, raccontacela tu la Shoah


Non è proprio un appello nel Giorno della Memoria, ma credo che se Zerocalcare raccontasse la Shoah, la memoria - quella Memoria - almeno qui in Italia, non andrebbe perduta.
Lo hanno già fatto Art Spiegelman con Maus, la celeberrima e cupa graphic novel del 1989 in cui racconta la tragedia dell'Olocausto. E, da poco, anche Michel Kichka, con "La seconda generazione", dedicata ai figli dei sopravvissuti ai campi di sterminio. Per citare i più noti.

E' una forma, quella della graphic novel, che compete ad armi pari con la bibliografia tradizionale, vincendo a man bassa se guardiamo alla capacità divulgativa senza rinunciare al rispetto assoluto dell'autenticità storica. E che, soprattutto, ha infinite possibilità di trovare spazio negli smartphone dei nostri figli, prima ancora che nelle nostre librerie.

Su questo fronte, per citare altre esperienze, penso a Persepolis, la graphic novel di Marjane Satrapi, che ci ha portati nel cuore della quotidianità dell'Iran travolto dalla rivoluzione islamica con una delicatezza e una lucidità disarmanti. O allo straniamento - si fa per dire - scorrendo le pagine apocalittiche di "Fuga dal campo 14", in cui si narra la vicenda reale di Shin Dong-hyuk, l'unico uomo nato in un campo di prigionia della Corea del Nord che è riuscito a scappare all'età di 23 anni.

Zerocalcare, che sul piano della narrazione è un fenomeno che tiene insieme il registro dell'ironia con la solidità della narrazione storica, si è già misurato con la questione curda con Kobane Calling e, giusto un mese fa, con Groviglio, ulteriori 12 pagine sulla stessa questione, ospitate su Repubblica. 
Si ride, ma soprattutto ci si informa, si capisce. In altre parole, si fa memoria. 
Il talento di Zerocalcare, per un obiettivo narrativo come quello della Shoah, sarebbe perfetto. Perfetto.

E non è vero che non ci si può scherzare. Non penso a Moni Ovadia o alla lunga tradizione dell'umorismo ebraico, o a Woody Allen, solo per nominare i più noti. Penso a Benigni. Ce lo ha fatto vedere lui, con La vita è bella, che sulla tragedia dei campi di sterminio si poteva fare memoria collettiva utilizzando - per la prima volta con eco mondiale - il tono dell'ironia.
Certo, ci aiutava una certa nostra opinione sui tedeschi dell'epoca. 
Tanto che - questo stesso fronte - già Totò, nei "I due Colonnelli", aveva rispedito al mittente l'intollerabile teutonica precisione nel rispettare gli ordini del maggiore Kruger e la sua "Ma io ho la carta bianca!", con l'indimenticabile "E ci si pulisca il culo".  
Che non era una graphic novel, ma andava benissimo lo stesso.

martedì 17 gennaio 2017

La svastica di via Valdonica

Spero, guardando la foto, che non stiate veramente sfornando congetture su complotti o strategie sotterranee, piani segreti o rivoluzioni in erba. Questa roba qua è merce appena sotto la linea del comprendonio, dai, quel minestrone stanco di chi arranca a metà tra la sciatteria e la pigrizia, tra mani affondate nelle tasche al pomeriggio e checazzofacciamooggi, tra un'overdose di social mentre cazzeggi in centro sguardo allo schermo e checazzomenefrega. Roba così. Un vandalismo con l'impassibilità dell'ignoranza, con l'imperturbabilità della trasandatezza. Per questo la svastica sul muro di via Valdonica a Bologna, esattamente nel punto in cui Marco Biagi è stato ucciso dalle Brigate Rosse il 19 marzo del 2002 e a 100 metri dal Museo Ebraico, è ancora più offensiva. Perché è figlia di niente. Di un cazzeggio nato chissà come, che non ha certamente a che fare né con Biagi né con il Museo. E' offensiva perché, ignorandola, umilia la memoria.
Aveva ragione Derek Bok: "Se pensate che l'istruzione sia costosa, provate l'ignoranza".