martedì 13 novembre 2018

"Tutto si riempirà di futuro". Perché, oggi, serve ancora la politica.


A pagina 241 faccio una cosa che non faccio mai mentre leggo: chiudo un attimo il libro, cerco una matita, poi lo riapro e evidenzio un passaggio. Questo:

"Se i mutamenti reali sono prodotti solo dalla tecnica, quale spazio potrà mai esserci per qualunque progetto politico? Per forza la politica diventa solo retorica. Anche perché o la politica offre una possibilità per un miglioramento collettivo, indicando una direzione per la Storia oppure tanto vale pensare solo a se stessi. A quel punto la politica si limita a occuparsi di amministrare il quotidiano e noi possiamo dedicarci, per esempio, alla letteratura e osservare con occhio ironico lo svolgersi delle vicende umane. Insomma, se la politica non può cambiare il mondo, almeno il mio mondo, perché dovrebbe appassionarmi?"

Brutalizzando: la politica, oggi, serve davvero a qualcosa?

La domanda, che ci riguarda tutti, è di Elena Gogor, uno dei personaggi de "L'uomo di Mosca", il romanzo di Alberto Cassani edito da Baldini&Castoldi. Una domanda che Elena, giovane e bellissima (e misteriosa), rivolge a uno sbigottito Andrea Cecconi, mite (ma mica tanto) protagonista del romanzo, avvocato, ex assessore a Ravenna, sulla china del disincanto dopo aver abbandonato la politica, ma tiepidissimo anche verso gli ambienti borghesi che si ritrova a frequentare.

Una domanda che in quel momento lo lascerà senza parole, ma che troverà risposta nell'ultima pagina. Una risposta di poche righe, un ricordo di moltissimi anni prima, quando suo nonno (anche lui impegnato in politica),  sotto un cielo smisuratamente grande e stellato, parlandogli della vita che verrà, gli dirà: "Forse, a un certo punto, ti capiterà quello che è capitato anche a me, di pensare di poter cambiare il mondo, e di impegnarti in questo sforzo. Certo, anche questo impegno, visto da una qualunque di quelle stelle, potrà apparire un'inezia insignificante, per di più velleitaria perché destinata alla sconfitta, eppure, almeno per me, quello è stato il modo migliore per spendere il tempo della mia esistenza".

Una risposta che non scioglie del tutto il dubbio, ma che ci fa respirare. E che, guardando il bicchiere mezzo pieno, ci fa pensare che, sì, la politica è necessaria, fare politica è necessario. Ma che fatica, farla. Soprattutto di questi tempi.

Questa fatica si intreccia, lungo tutto il romanzo, con i tre piani di narrazione scelti da Cassani.
Uno è quello della spy-story con lo sguardo rivolto agli anni 70, quando il Pci aveva una linea diretta con il Pcus, con tanto di movimenti finanziari sotterranei. Al centro della scena Andrea, a cui il nonno, in punto di morte, rivela una vicenda dai contorni ancora molto appannati che lo porteranno ripetutamente a Mosca per cercare la verità, con uno sguardo che alterna fatti accaduti 40 anni prima alla quotidianità nel ravennate, tra Aldo Moro e Putin, Breznev e Berlinguer, il porto di Ravenna e il Mar Nero, il tesoriere del Pci locale e società di trasporti marittimi, in un intreccio sempre più fitto.

Il secondo è quello della vita personale e professionale di Andrea, una vita in cui il disincanto sfiora - senza però mai toccarlo - il cinismo. Un quasi-cinismo che arriva dopo anni di politica, certo, ma che appare come un elemento strutturalmente appartenente a chiunque abbia valicato la soglia dei 50 anni, quasi una forma di difesa, un galleggiante per non annegare nel vuoto cosmico delle relazioni - pubbliche o private che siano.
E così, un viaggio in treno tra adolescenti rincoglioniti, una serata al borghesissimo club Bizantyum con voglia di scappare, una passeggiata in centro, diventano occasioni per un tratteggio lucido, sempre ironico e divertente, su un'umanità, diciamo così, senza speranza.

Il terzo, quello che i palati più fini troveranno irresistibile, è quello della filigrana intellettuale, piccole scene quasi teatrali - spesso dialoghi - in cui Andrea discorre amabilmente citando Franzen, Canetti, Hobbes, l'uomo-massa, Gramsci. Chiaramente un divertissement che Cassani si concede - e fa benissimo - e che consolida alla perfezione, dandogli struttura, l'analisi del mondo che il protagonista squaderna agli interlocutori durante i dialoghi. O anche, semplicemente, in passaggi di raccordo tra un capitolo e l'altro. Veri gioiellini di ironia per pochi eletti (senza che i non eletti se ne abbiano a male).

Un romanzo, insomma, che dietro il confronto tra un'epoca di memorabili passioni politiche e un presente asfittico quanto a gamma di passioni possibili, illumina a giorno la scena del tempo che fu, quando la politica era totalizzante e identitaria. Mosca, in tal senso, diventa il baricentro di vite italiane, emiliano-romagnole, che sono state forzatamente - come molte all'epoca - doppie. Ma era per un buon fine, diciamo così, senza svelare il finale, di cui possiamo solo dire che reggerebbe tranquillamente la trasposizione cinematografica, tanto è ricco di colpi di scena.

Una cosa, però, ve la anticipo. Verso la fine, il protagonista annuncia che avrà un figlio, quando ormai lui e Laura - la moglie - non ci speravano più.
E quel figlio in arrivo pare rovesciare il tratto di malcelata sfiducia tenuto sin lì, tanto da far sottolineare meravigliosamente che "mille cose imprevedibili potranno succedere. Tutto si riempirà di futuro".
Tutto si riempirà di futuro.
Una frase assolutamente meravigliosa.
Un futuro che, senza dirlo, Andrea immagina con le parole del nonno, quell’impegno per cambiare il mondo che sarà anche velleitario e insignificante davanti alle stelle, ma che sarà stato il modo migliore per spendere la propria esistenza.

domenica 4 novembre 2018

Il cimitero dei viados


Quando sei un viados e sei spacciato perché ti sei ammalato di aids. Per anni hai battuto sui marciapiedi di Rimini, diventi uno scheletro, e in quelle condizioni le protesi al silicone che ti eri messo per farti un culo sodo, tette da sogno, zigomi pieni e labbra polpose, ecco, tutta quella roba che serviva per richiamare moltitudini di maschi, scende lungo il viso che si svuota, si accumula sotto le mascelle e si muove come tante piccole palline sottopelle, sulla faccia che perde tono, si ammassa solida tra le cosce malate e raggrinzite, appena sotto quel che resta delle chiappe, ora palloncini sgonfi e svuotati. E diventi un mostro, un essere deforme e malato. E solo.

E chi ti vuole più? 
Ma in realtà, chi ti ha mai davvero voluto?

Se è vero che sono i dettagli a fare la differenza, allora questa è la differenza. 
Che un viado che si ammala di aids, prima di morire passa anche attraverso una trasfigurazione del corpo mortificante e inevitabile. Un corridoio temporale di fine vita in cui il corpo, merce superba in vendita per un pubblico sempre maschile, si svuota e si sgonfia sotto la mazza pesante della malattia.

Un’umiliazione profonda, ma non certo la prima di queste vite quasi tutte uguali, tutte iniziate sui marciapiedi di qualche città del Sudamerica o di Cuba, dove questi viados di cui racconteremo ora, sono nati e – nel migliore dei casi - sono stati abbandonati quando erano ancora bambini. Nel peggiore, sui marciapiedi ci sono arrivati dopo essere stati abusati, 99 volte su 100 in casa da parenti e amici.

E sono morti soli.

Anzi, no. Non sono morti soli.

Ed è esattamente qui che comincia la nostra storia.

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Franz appoggia i gomiti sul davanzale della finestra. Poi con un dito mi indica una collina: “Lì c'è il cimitero di San Patrignano dove sono sepolti i viados".

“In che senso il cimitero dei viados?”, rispondo.

“Quelli che si prostituivano a Rimini. Quelli che si ammalavano di aids venivano qui a morire. Sono seppelliti lì”.

È passato qualche anno da quando Franz Vismara, il responsabile delle relazioni istituzionali di San Patrignano, mi ha detto quella frase.  
Era una giornata di festa per la Comunità, perché quel giorno si ufficializzava la convenzione tra l’ASL di Rimini e San Patrignano. 
Il Centro Medico della Comunità, un ambulatorio che serviva per visite e cure degli ospiti della Comunità, entrava a far parte delle strutture convenzionate con l’ASL. In sintesi, voleva dire che in quel Centro ci sarebbero potuti andare anche i cittadini dei comuni lì intorno, che non era più un luogo ad uso esclusivo di San Patrignano.

Come due vecchi amici, anche se in realtà ci conoscevamo appena, a cerimonia conclusa - mentre la gente defluiva - ci eravamo ritrovati affacciati sul davanzale di una delle finestre del Centro medico, a guardare fuori.

E lui mi aveva detto quella cosa.

Per qualche anno quelle parole erano rimaste sospese lì, in quella zona del cervello in cui vanno a finire le cose di cui sai di non doverti dimenticare. E ne avevo accennato ripetutamente ad amici e colleghi: il cimitero dei viados. Pensavo che fosse una cosa che andava raccontata, che non andava dimenticata, soprattutto.

Quel che mi aveva subito colpito, infatti, era stata l’idea di una sorta di ultimo atto di pietà, a ben vedere forse l’unico che quelle persone, i viados, avessero mai ricevuto nella loro vita: la sepoltura.

E così, dopo qualche anno, in un luglio veramente caldo, sono salito sulle colline di Coriano, per incontrare Antonio Boschini, memoria storica della Comunità, oltre che responsabile sanitario di San Patrignano. Per farmi raccontare da lui.

Quando entro nell’atrio dell’ambulatorio, so di disturbare. Qui c’è gente che sta male, e io in fin dei conti ho solo voglia di chiacchierare, di capire.

Chiedo di Antonio. E mentre chiedo di lui, eccolo che si affaccia da una porta: “Ciao Stefano, do una stampella a un ragazzo e poi sono da te”.

Ecco, io lo so che dovrei andarmene. Lì, a San Patrignano, la gente sta male sul serio. La droga, si. Ma anche altre dipendenze, il gioco d’azzardo su tutte. E in fin dei conti io interrompo una mattina di lavoro di Antonio per motivi tutti miei, che hanno a che fare con domande tutte mie. Però, penso forse in maniera un po’ autoassolutoria, è vero che forse le domande sono tutte mie. Però è altrettanto vero, mi dico, che le risposte le trovo solo qui.

E quindi Antonio. Antonio con le sue risposte.

Lorella Biondi e Antonio Boschini
Antonio che mi accoglie nel suo ambulatorio e comincia a ricordare: “Si, i viados. Vero. C’è stato un periodo in cui avevamo anche loro. Sono sepolti nel nostro cimitero. Il fatto che siano stati sepolti qui, è perché effettivamente nessuno reclamava le loro spoglie una volta morti. Erano completamente soli. Forse, tra di loro, avevano qualche amicizia, ma nel momento in cui morivano qui, non c’era nessuno che pensava a loro. E quindi pensavamo noi alla sepoltura”.

Antonio mi spiega che il motivo per cui i viados arrivavano in comunità era sempre legato alla combinazione tra la loro malattia e la loro solitudine: “I viados arrivavano al reparto di Malattie infettive all'ospedale di Rimini malati di Aids. Dal momento in cui potevano essere dimessi dall'ospedale, ma comunque non erano in grado di tornarsene autonomamente a casa loro – ma spesso non c’era neanche una casa loro - le Malattie infettive di Rimini chiedevano a noi di farcene carico. E noi lo facevamo. Semplicemente, lo facevamo.
Certo, ammetto che ero molto preoccupato all'inizio. Ogni volta che ci facevano questa richiesta, mi veniva un tuffo al cuore, perché io, almeno nell'idea parziale che avevo a quel tempo, vedevo il viado come l’espressione massima della trasgressività. E quindi, dato che qui c’erano i ragazzi che facevano il loro percorso di recupero e che qui in Comunità non avevano una vita sessuale, insomma, avevo il timore che la presenza dei viados potesse in qualche modo essere destabilizzante”.

Il pudore di Antonio, che quasi si scusa per un pensiero di questo tipo, aveva dei fondamenti solidi, inutile girarci intorno. Senza neanche scomodare Tondelli o richiamare l’eco della trasgressione della riviera negli anni ottanta. Erano timori inevitabili: “Molti dei ragazzi che facevano il percorso in Comunità, specialmente quelli che avevano avuto una vita molto trasgressiva, con uso di cocaina, avevano spesso avuto rapporti con i viados. E quindi, l’idea di pensare che dei ragazzi in percorso di comunità potessero assistere questi malati, accudirli, assisterli, cambiarli, avere cioè un rapporto che non era solo darsi la mano, ecco io temevo che questo potesse scatenare situazioni di difficilissima gestione per noi. Esporre i ragazzi, diciamo così, a dei comportamenti che io ipotizzavo essere seduttivi da parte dei viados, che io pensavo fossero estremamente trasgressivi, mi spaventava molto”.

Tiziana Giordani, volontaria storica della Comunità, vicinissima a Muccioli sin dall'inizio, ricorda: “Quando arrivavano qui in Comunità erano loro i ‘diversi’, e proprio qui stava la sfida: non li dovevi far sentire diversi. Il primo problema, però, c’era subito: le camere. Io e Antonio ci chiedevamo: Oh Madonna, dove li mettiamo? Vicino a una donna non va bene, vicino a un uomo, a un ragazzo, non va bene. Cosa facciamo?” Dubbi diffusi, profondi, che anche Antonio ricorda bene: “Certe volte ci chiedevamo: ma dove li mettiamo in camera? Con un uomo o con una donna? Perché da un certo punto di vista era molto più logico metterli con una donna in camera, che con un uomo. Solo che fisicamente non erano donne, erano uomini, per cui c’era questo tipo di interrogativo che ci metteva in crisi. Nessuno era preparato”.

Eppure sarebbero stati proprio i viados a rispondere, con i fatti, a tutti i timori “logistici” che in Comunità si erano diffusi per la loro presenza.

“Non è mai successo niente – mi racconta Antonio – Niente. Anzi, la cosa che mi ha colpito di più di queste persone è stata la loro estrema dignità e attenzione proprio nei confronti delle persone che li assistevano. Mai una parola, un’allusione, una malizia”.

A disinnescare qualsiasi meccanismo destabilizzante per la Comunità – più che altro il timore che questo potesse succedere – sarebbero stati i viados stessi. Persone che, a conti fatti, avrebbero presto spiazzato operatori e volontari raccontando le loro storie di vita, agli antipodi rispetto all'idea di trasgressività, piuttosto pozzi neri di disperazione e fughe eterne.

“Alcuni di loro erano profondamente religiosi – dice Antonio – Ed erano persone che effettivamente avevano una sensibilità femminile, veramente molto sensibili. Quello che si coglieva in maniera forte era che pensavi veramente di avere a che fare con delle donne. Gentili. Soprattutto molto gentili”.

Lorella Biondi, che negli anni tra il 1990 e il 2000 era educatrice e coordinatrice delle degenze, e che ora si occupa dei farmaci nella Comunità, mi fa un esempio pratico: “Quella che mi ricordo di più era Antonio Correa dos Santos. Che poi, a dire la verità, usavamo un nome italiano per chiamarla, un nome che adesso non mi ricordo esattamente. Però quello che ricordo bene, a parte l’imbarazzo iniziale – dato che comunque avevi a che fare con una persona diversa – era che, pur essendo un uomo, era proprio una donna. Era una donna fatta e finita. Una persona gentile”.

Antonio Correa dos Santos amava leggere. Ma era quasi cieco per le infezioni.

“Antonio Correa dos Santos era gentile. Quello che mi ricordo è che gli piaceva leggere. C’erano delle persone che si mettevano lì, gli facevano le letture – mi racconta Lorella - I ragazzi della comunità leggevano, gli facevano compagnia. Alcuni malati, e tra loro anche i viados naturalmente, a causa di infezioni agli occhi perdevano la vista. Antonio era tra questi”.

“Si, ricordo benissimo – spiega Tiziana – Ricordo di aver letto ‘La città della gioia’ di La Pierre. O Siddharta di Hermann Hesse. Libri che, per me, erano bellissimi. Molte parole questi ragazzi, i viados, non le capivano e allora passavi molto tempo a spiegarne il significato. Si, erano delle belle persone, decisamente. La lettura era una forma di compagnia”.

Anche Lorella ricorda bene: “Come no, amavano la compagnia della lettura. Mi ricordo ‘E venne chiamata due cuori’ di Marlo Morgan. Alcuni tra loro avevano proprio una predilezione a queste letture romantiche, sentimentali. Proprio le letture del cuore insomma”.

Tiziana Giordani
“Erano davvero persone sensibili. I viados, quando parlavano di se stessi, raccontavano sono gli amori. Gli amori, si. Amori con persone a cui di solito non avevano detto della sieropositività e della malattia. In comunità ho conosciuto non solo viados – mi spiega Lorella - ma anche i ragazzi, i loro fidanzati, che erano clienti di viados. E in genere non erano omosessuali, erano persone che non riuscivano ad instaurare un rapporto intimo con le donne.  Gli risultava più facile instaurare un rapporto intimo con gli uomini, che è una cosa diversa dall'omosessualità. I clienti dei viados sono – e lo erano anche all'epoca - eterosessuali.  Alcuni erano ipertrasgressivi, cocainomani, ci andavano soltanto così, per fare la bravata, la nottata. Ma io ho conosciuto diverse persone che proprio avevano instaurato dei rapporti affettivi con i viados, si erano fidanzati, ci avevano convissuto anche per un anno.  E i viados, quando ci raccontavano le loro vite, facevano riferimento a questa parte, a quella sentimentale, non a quella – diciamo così – commerciale”.

Tra le pieghe della quotidianità, insomma, emerge il lato più inaspettato, quello di una sensibilità lontanissima dalla trasgressività giocoforza esercitata nel momento della prostituzione.

E, ritrovando in un certo senso una sensazione di pace – in realtà preludio al fine vita – molti tra i viados si aprivano per condividere le parti più dolorose delle loro vite: “Parlavano della loro fuga – racconta Lorella - La maggior parte erano brasiliani, e quello che raccontavano era la non accettazione da parte dei loro familiari di questa loro condizione, della loro sessualità diversa sin da bambini. Quindi c’era già una solitudine estrema. Una solitudine che si sarebbero portati dietro per tutta la vita”. “Quando parlavano delle loro origini si incupivano – aggiunge Tiziana – Quasi tutti erano stati violentati da bambini. In qualche modo trovavano il sistema di fuggire e arrivavano in Europa, e anche qui a Rimini. Trovandosi qua, cosa potevano fare sulla strada? Non si accettavano, per cui alcuni si facevano, si prostituivano e, chiaramente, si ammalavano. Erano però tutti di una dolcezza squisita, di una bontà estrema, puliti dentro nonostante avessero vissuto delle offese, delle mancanze di rispetto. In un certo senso potrei dire che non si erano sporcarti. Erano candidi dentro, erano puliti”.

Se le condizioni lo permettevano Tiziana organizzava anche qualche uscita. “Si, me li portavo dietro insieme agli altri ospiti della Comunità. Dove andavo, me li portavo dietro. Li caricavo in macchina e li portavo giù al mare d’estate. Facevano il bagno: 'Ma l’acqua è salata, Tiziana! Ma l’acqua è salata!!', mi dicevano.
Beh, dico, è normale, è l’acqua del mare. Perché voi non lo sapevate?
No!!
Erano abituati, dove vivevano,  ai fiumi, vai a capire, che l’acqua non era salata. 
Tiziana,ma l’acqua è sa-la-ta!”.

Lorella ricorda bene uno dei desideri più forti: “Nonostante le origini così dolorose, sarebbero voluti tornare a casa, esattamente dov'era iniziato il percorso della loro tragedia. Molti tra loro ci facevano vedere le foto dei parenti, dei familiari, con grande nostalgia. Ma a frenare l’idea del ritorno c’era un problema economico per tutti, indistintamente. E anche il problema dei farmaci, dato che a casa loro, in Brasile e Cuba principalmente, le cure non c’erano. E quindi di fatto erano costretti a rimanere qui. Ma non era una costrizione dolorosa, qui avevano instaurato buoni rapporti, rapporti affettivi, proprio con la messa in gioco di sentimenti”.

E per tutti, indistintamente, l’incubo del silicone.

“Poveretti, li dovevi vedere – mi racconta Tiziana - Prima di tutto, erano tutti rifatti. E vedevi nel tempo, con la malattia, l’effetto del muscolo che si afflosciava. Per cui vedevi questo silicone che scendeva, non stava più nell'apposita sede del muscolo. Era una roba allucinante, poverini. Vedevi questi bozzi di silicone che avevano riempito i glutei e che poi erano scesi, erano completamente fuori posto. E noi naturalmente cercavamo sempre di alleggerirli, di non far pesare queste cose. Mi ricordo quando arrivavano in Comunità, ognuno arrivava col proprio pacco di vestiario in cui c’erano tanga, abiti da sposa, vestiti ‘mega’, sai quegli abiti da sera da donna coi brillò, tutti leggerissimi, tutti molto ‘tanto’. E poi, vedendo quel corredo, facevi il confronto con la situazione in cui si trovavano, vedevi come si erano ridotti, con il silicone che li riduceva in quel modo, e capivi ancor di più la loro solitudine”.

Silicone spietato, che si scollava e scendeva: “Si, era un grande imbarazzo – conferma Lorella - cascava tutto giù. Sui fianchi, sul sedere”.

Ma soprattutto, come ricorda Antonio, era il viso a pagare le conseguenze più drammatiche: “Il tessuto adiposo veniva a mancare e quindi, per chi aveva fatto l’intervento agli zigomi, era quasi crudele. Vedevi le facce che si trasfiguravano, c’erano queste palline di silicone sottopelle che giravano per la faccia. Loro erano imbarazzatissimi”.

La morte negli anni novanta permeava la comunità, avvolgendola implacabilmente. I farmaci per combattere l’hiv erano ancora lontani dall'essere sperimentati e messi in circolazione: “In quegli anni c’era una mortalità spaventosa – mi conferma Antonio - Credo che qui siano morte almeno 500 persone di aids fra il 1993 e il ‘98, ‘99, fino a quando hanno cominciato a fare effetto, appunto, le nuove terapie. All'inizio, ogni volta che moriva qualcuno si faceva il funerale a cui partecipava tutta la Comunità. Però poi ci siamo resi conto che non era più possibile fare una cosa del genere, perché la Comunità avrebbe vissuto in un lutto costante. Avresti dovuto far vivere quel lutto anche alle tantissime perone sieropositive che comunque stavano ancora bene ed erano in comunità. Non era proprio pensabile vivere sotto questa cappa di morte. Quasi ogni giorno moriva qualcuno. Quindi a un certo punto abbiamo deciso di non fare più il funerale, ma semplicemente una piccola funzione qui nella cappella del centro medico, dell’ospedale, a cui partecipavano solo gli amici più stretti, e non tutta la comunità”.

Antonio Correa dos Santos e gli altri viados ospiti a San Patrignano tra il 1990 e il 2000, si spengono circondati dagli amici che nei pochi mesi di permanenza in Comunità (di fatto per loro con funzione di hospice)  li avevano accolti e accuditi. Una piccola funzione anche per loro, un saluto con qualche parola e poi la sepoltura.

Salgo la strada che in salita porta al piccolo cimitero sulla collina. Il cancello sembra chiuso, ma basta spingere per entrare.

Un microscopico cimitero sui colli, dove è sepolto Vincenzo Muccioli, dove è sepolto Gianmarco Moratti. Le lapidi di Muccioli e di Moratti sono circondate da persone morte per aids. E ci sono Correa dos Santos - morto a 16 anni - e gli altri, vissuti soli, arrivati qui soli, sepolti nell'abbraccio della Comunità.

domenica 16 settembre 2018

Il cannibalismo digitale a San Francisco

Sulle strade del Mid Market a San Francisco


Irene dice: "Guarda che nessuno si ferma se vede qualcuno che sta male per strada, se non per fargli una foto".
San Francisco. Due chiacchiere a margine di un evento ufficiale.
Penso sia un'esagerazione.
Questa cosa della foto intendo.
E invece passano 24 ore e lo faccio anche io.
Un ragazzo steso per terra.
Estraggo il cellulare, clic, ecco San Francisco.
Una specie di cannibalismo digitale con venature moralistiche a cui mi accodo senza neanche rendermene conto.
Siamo nella zona del Mid Market. Ma è così anche a Soma, South Park, South Beach. E chissà in quanti altri posti. Un esercito di persone fatte e sfatte, soprattutto crack mi dicono. Inermi e allucinati, stesi sull'asfalto, bruciati dal sole, dal vento, a gruppetti lungo i marciapiedi di Frisco, piccoli accampamenti tra piscio, sacchi a pelo e cartoni. Ma anche moltitudini di singoli spettri, che incroci ogni 10 metri mentre cammini.
3 anni fa, quando ero venuto per la prima volta in California, non era così. Era una San Francisco meno cupa. Ma ora è la prima cosa che si vede. Qualcosa, qui e altrove, sta andando più storto di sempre. Compreso il mio cannibalismo digitale.

I salari hi-tech
Downtown San Francisco
“Se hai due salari tech arrivi più o meno a 500mila dollari l’anno, non meno. E con quella cifra puoi vivere abbastanza bene. Ma una famiglia, con meno di 500mila dollari l’anno, a San Francisco deve fare bene i propri conti. Se ti arriva un figlio, in genere la mamma rinuncia a lavorare e sta a casa. Che si tratti di una baby-sitter, di un asilo o una scuola (privata, si intende, perché quelle pubbliche sono la morte civile), ti partono almeno 100mila dollari l’anno. E allora a casa ci sta la mamma”.

I manifesti di Matt Haney
Le strade di San Francisco
Sulle vetrine di qualche negozio ci sono i manifesti della campagna elettorale di Matt Haney per il
District 6 di San Francisco. Il primo dei tre slogan è "ripuliamo le nostre strade".
A qualcuno queste parole dovrebbero suonare familiari



The TrumanShow-Valley
La sede di una delle Companies in Silicon Valley
A sud di San Francisco, la Silicon Valley viaggia alla velocità della luce, mentre – lontanissimo – il mondo arranca. E’ una bolla, la Silicon Valley, non nel senso che prima o poi esploderà per diseconomia (però, chissà). Nel senso che è isolata dal mondo, troppo bella e avanzata, troppo avanti e protetta. Come Pleasantville, come The Truman Show. Un mondo a parte che progetta e realizza h24 il mondo che verrà. “Sai perché le compagnie della Silicon Valley hanno delle sedi così fantastiche? Con piscine per i dipendenti, cibo gratis, strutture progettate dagli archistar? Stipendi da favola? Quote azionarie per i dipendenti? Perché trovare dipendenti con competenze avanzate è difficile. Quasi impossibile E quindi, le companies, se li coccolano e se li tengono strettissimi”.

Il sogno americano
Bandiera a mezz'asta per l'11 settembre alla HP - Palo Alto

La sede di Hewlett Packard, a Palo Alto, è un’astronave se paragonata al celeberrimo garage al 367 di Addison Avenue, dove nel 1938 Bill Hewlett e Dave Packard – costruendo un oscillatore audio – diedero il La a quella che sarebbe diventata la Silicon Valley. Tra quel sogno e quello di oggi, la continuità è tutta nella bandiera a mezz’asta che troviamo quando andiamo a visitare la sede avveniristica di Page Mill Road. E’ l’11 settembre 2018. Il fil-rouge che lega la storia quasi secolare della HP, è quello dell’American Dream, quella speranza – per citare Wikipedia, così siamo tutti contenti – “che attraverso il duro lavoro, il coraggio, la determinazione, sia possibile raggiungere un migliore tenore di vita e la prosperità economica”.

“We totally believe in Artificial Intelligence”

La relatrice HP
"We totally believe in Artificial Intelligence". Nella sede della Hewlett Packard la relatrice apre la sua presentazione con queste parole.
E, a ben guardare, ci sarebbe poco altro da aggiungere. Qui nella Silicon tutti puntano tutto sulla AI.
Tutto passerà da lì. L’intelligenza artificiale - che oggi è ancora progetto, domani sarà business e dopodomani sarà vita quotidiana – è “l’abilità dei sistemi informatici di eseguire compiti che normalmente richiedono l’intelligenza umana, come la percezione visiva, il riconoscimento vocale, il processo decisionale e la traduzione tra le lingue”. E a Hewlett Packard, ci credono fino in fondo. "We totally believe in Artificial Intelligence".Uno dei fronti AI su cui la Silicon sta lavorando tantissimo è il cosiddetto self-driving, cioè le auto a guida autonoma, senza pilota. E tra i protagonisti c’è anche l’Emilia-Romagna, dato che Ambarella – una Company di Santa Clara – nel 2015 ha acquisito VisLab, una startup di Parma, nata da uno spin-off dell’Università, che aveva già sviluppato un’auto capace di “guidare da sola” per 13mila km.
Uno che in Silicon ci lavora da 30 anni, mi racconta che di auto senza autista se ne vedono tutti i giorni anche sulle grandi Highway. Chissà se passerebbero indenni la tangenziale di Bologna alle 17,30.

Da grande voglio fare l'astronauta. Anzi, il Data Scientist
Un italiano che lavora a Palo Alto mi dice che suo figlio tra un paio d’anni finirà la high school e poi dovrà decidere cosa studiare all’università: “Farà ovviamente ciò che vorrà, ma il lavoro del futuro è quello di Data Scientist. Chiunque lavorerà nel campo dell’analisi dei dati, o dei big data – chiamali come ti pare – per i prossimi 50 anni il lavoro lo trova di sicuro”.

Uber&Karaoke
Con Michael. Uber.

Se il futuro è quello del self-driving, il presente a San Francisco (anche in tante altre città, ok)  si chiama Uber. L’ho usato diverse volte. Una volta un autista del Kurdistan, poi Algeria, Costa d’Avorio, Messico. Insomma, melting pot on the road. La app ti dice che auto sta per arrivare, la targa, il tempo di attesa, il prezzo (addebitato automaticamente sulla carta di credito), ci mette il nome del taxista, mette proprio la sua foto e anche alcune note caratteriali. Yohanes, ad esempio, veniva indicato come ottimo conversatore e ottima musica. Quel che non ci aveva detto su Hameedullah – ma è stata una bella sorpresa – è che ha un impianto di karaoke in macchina. Appena si parte ti dà un telecomando, così puoi scorrere una lista di migliaia di canzoni da un monitor che è attaccato al cruscotto e, quando hai deciso, parte la musica con le parole che scorrono sul monitor. Ti dà il microfono, e via che si canta con il volume a palla, con lui che canta con te fino a destinazione. E la mancia gliela lasci volentieri.
Ah, appena saliamo individua subito la nostra lingua e ci dice: “My car is a room full of gringos”.
P.S. Nella foto sono con Michael, il mio primo Uber in assoluto da quando ho installato la app. Mi sembrava figo farci un selfie.

Le strade di San Francisco/2
Il traffico di San Francisco è quello che si vede in tv. E non lo si augura a nessuno. A un certo punto il taxista ci dice che “i peggiori guidatori del mondo sono di San Francisco”. Ma io gli rispondo che dice così solo perché non ha mai visto come guidano i veneziani.

La N°1
A Union Square ho trovato un centesimo per terra. L’ho raccolto, perché ho pensato che ero negli Usa e ho pensato a Zio Paperone.

Il vino della California
Mi dicono che San Francisco sia diventata quest’anno la città più costosa del mondo. Più di New York. E che presto toccherà a Seattle salire sul podio. Può darsi, non saprei. Quel che so per certo è che nel bar dell’albergo un bicchiere di vino è costato 16 dollari.


Però noi abbiamo ragione
Mentre a San Francisco aspetto l’aereo che mi porterà prima a New York per uno scalo e poi a Malpensa, leggo su Facebook Daniele Ferrazza, che cita Andrea Purgatori, che dice così:” Nel 2017 i sei colossi del web (Google, Apple, Facebook, Airbnb, Tripadvisor e Uber) con profitti da 10 miliardi ciascuno, hanno pagato in Italia 14 milioni di euro di tasse. Gli autori italiani, 240 milioni. Loro hanno i miliardi, noi abbiamo ragione”


lunedì 10 settembre 2018

Maniche di camicia e pedalare

All'European Innovation Day di San Francisco, la prima cosa che faccio è togliere la giacca.
Un po' è caldo, è vero. Ma non è solo questo. Guardandomi intorno, non dico che ero il solo ad averla, ma poco ci manca. E' l'impatto con il pragamatismo americano, molta sostanza, poca apparenza, che mi ha sorpreso tutte le volte che sono venuto negli Stati Uniti.
Maniche di camicia e pedalare.
Anche la pomposità del nome (Un nome lunghissimo: European Innovation Day, Startup Europe comes to Silicon Valley, a cui è invitata a partecipare la Regione Emilia-Romagna) contrasta con la sede dell'evento, Mind the Bridge, un organizzazione che promuove l'internazionalzzazione delle imprese europee negli Usa.
Ci si ritrova in quello che dev'essere stato uno scantinato, o un parcheggio, riadattato con quattro pilastri ridipinti di azzurro, sedie low profile, un calcio-balilla con 13 calciatori per squadra (nell'asta del portiere ci sono due terzini di rinforzo), tutto molto figo e ammmerigano.
Ma funziona.
Funziona eccome.
Si susseguono interventi di imprenditori, startupper, professionisti del mondo degli incubatori di impresa, degli acceleratori, e ti raccontano come un'idea di impresa, sin dall'inizio, venga accolta, coccolata, fatta crescere fino a diventare business e creare ricchezza e lavoro.
Ed è sempre una bella immersione nella concretezza, in un certo senso molto emiliana. E non è un caso che solo la Regione Emilia-Romagna abbia un presidio nella Silicon Valley. Che, insomma, se il futuro (già da un pezzo, in realtà) inizia da queste parti, è meglio esserci.
E poi da queste parti, anche se con l'innovazione c'entra poco, per i malati di trekking come me c'è da perdersi. Alessandro mi scrive: Se vuoi camminare in un posto mozzafiato, vai a Russian Valley River, 90 minuti di macchina. Me lo segno.

sabato 10 marzo 2018

Signore delle cime

Il Corriere della Sera qualche giorno fa ha dedicato un bel pezzo di Gian Antonio Stella al vicentino Bepi De Marzi - l’autore ignoto (più celebre del mondo) - compositore di meravigliosi canti di montagna, tra cui il celeberrimo "Signore delle cime". 
Mi ha fatto ricordare che nell'estate del 2008 ho incontrato casualmente al rifugio Palmieri, sopra Cortina, un coro di italiani e uno di tedeschi, che per non so quale patto d'amicizia tra di loro si trovano ogni estate a fare un trekking insieme, un anno in Italia e un anno in Germania ecc, e la sera - a fine cammino - si fermano a cantare sia nel cortile sia, dopo cena, nella sala. Immagino che continuino a farlo ancora adesso. Mi dispiace non ricordare il nome del coro, ma lo recupererò. 
Quella sera, era il 31 agosto, hanno cantato Signore delle cime. Questo è il video di quella sera.

lunedì 12 febbraio 2018

Siamo davvero tutti "Impalare Cécile Kyenge"?



"Impalarla è il minimo che si può fare".
Loretta Giuliani, simpatizzante della Lega Nord con tanto di foto di Salvini sulla propria pagina Facebook, augura questa pratica così poco gradevole - si fa per dire - a Cécile Kyenge, presente due giorni fa a Macerata alla manifestazione antifascista.
Perché glielo augura? Perché, nel corteo, un gruppo di decerebrati ha urlato lo slogan "Ma che belle son le foibe da Trieste in giù!"
Dunque, la regola è questa: a una terrificante idiozia si risponde con una terrificante idiozia.
Due idiozie -  non vorrei sembrare didascalico, ma correrò il rischio -  il cui trait-d'union è l'augurio della morte. Possibilmente da lenta e dolorosa agonia.
E' vero, nessuna novità. I social sono una fogna.
A me, però, pare che rassegnarsi all'idea che queste cose siano normali sia, semplicemente, ingiusto.
Ingiusto per noi stessi: come persone, come cittadini, come Paese.
A quale livello si abbassa, giorno dopo giorno l'asticella delle cose che consideriamo accettabili, normali?
Lo so che è fuori moda, che ci si sente uomini dell'Otttocento a fare appello alla morale, all'etica.
Ma io non mi vergogno, il richiamo all'etica nei rapporti di convivenza civile e nel dibattito politico  è un tassello fondamentale. Anche perchè il contrario, cioè accettare tutto questo, avvalla passo dopo passo l'imbarbarimento. E, dopo, c'è solo l'abisso.

Come dice Nanni Moretti, le parole sono importanti.
E se dell'infoibamento, azione disumana, sappiamo già tutto,  probabilmente dell'impalamento sappiamo poco. E allora, rispetto a questa pratica che viene augurata alla Kyenge, forse vale la pena rinfrescare la memoria, prima di spenderla come elemento di dibattito pubblico.

"Il suppliziato veniva completamente denudato e costretto a sdraiarsi con il ventre a terra. Dai due aiutanti del boia gli venivano legate le mani dietro la schiena e assicurata una corda a ciascuna caviglia, in maniera tale che, tirando le funi, le gambe si divaricassero, agevolando in tal modo il carnefice a individuare l'orifizio anale o vaginale per l'introduzione della punta del palo. Il lungo palo di legno era largo alla base e molto sottile in cima, dove era rivestito da una punta metallica smussata; veniva appoggiato su due tozzi cilindri di legno, che servivano da rulli per farlo scorrere nel punto di inserimento. Affinché entrasse con facilità nel corpo del condannato, la punta veniva spalmata di grasso animale, olio o miele.

Il punto di entrata poteva essere l'ano, la vagina oppure una parte bassa dell'addome. Dopo aver introdotto la punta del palo, questo veniva spinto subito all'interno del corpo del suppliziato, penetrando rapidamente di alcuni centimetri. La progressiva introduzione del palo nel ventre del condannato avveniva per opera del boia per mezzo di ripetuti colpi, dati con un pesante mazzuolo all'estremità più grossa del palo. Grazie a un'adeguata abilità dovuta all'esperienza il carnefice era in grado di guidare i due inservienti su come tirare le funi legate alle caviglie, in modo da mantenere il corpo del condannato nella posizione voluta, durante gli inevitabili sussulti e contorcimenti, per far sì di non ledere organi vitali allo scopo di prolungarne al massimo l'agonia.

Sopra la scapola destra gli si formava una protuberanza che il carnefice incideva a croce. Ancora qualche colpo leggero e spuntava la cima del palo rivestita di metallo, restava soltanto da spingerlo finché fosse all'altezza della guancia. Per ultimo, gli venivano legati i piedi al palo in modo che non scivolasse in basso, e a volte il corpo del condannato veniva ricoperto di miele o altre sostanze dolci, in modo da attirare ogni tipo di insetto e aumentare ancor di più la sofferenza del condannato, costretto così a subire anche il tormento delle punture e il fastidio causato dagli insetti.

Se il fegato, i polmoni e il cuore erano rimasti integri, il condannato era vivo e cosciente. Servendosi di corde gli assistenti del carnefice issavano il palo, in modo che l'estremità più larga si conficcasse in una buca scavata nel terreno, poi lo rinsaldavano con cunei di legno. La morte sarebbe arrivata molti giorni dopo".


venerdì 26 gennaio 2018

José Mourinho, Árpád Weisz, Auschwitz e l'aria che tira


José Mourinho, allenatore del Manchester United, è stato ucciso oggi nel campo di concentramento in cui era prigioniero da circa un anno e mezzo. Due anni fa la stessa sorte era toccata alla moglie, Matilde Faria, e ai tre figli della coppia.

Non è vero, naturalmente.

Ma 74 anni fa, questa cosa che tutti noi oggi riterremmo impossibile - e cioè che un personaggio pubblico osannato, uno sportivo pluridecorato potesse essere arrestato, deportato e ucciso, dopo lo sterminio della sua famiglia - toccò in sorte ad Auschwitz ad Árpád Weisz, celebratissimo allenatore ungherese di origine ebraica, che aveva portato allo scudetto prima l'Ambrosiana (l'Inter) e poi, per due volte, il Bologna.

L'impossibile, insomma, è stato possibile.

E a niente era servita la fama, se a qualcuno potesse venire in mente che in qualche modo avrebbe potuto fare da scudo rispetto alla sorte toccata a milioni di altre vittime "anonime".
Nè a lui nè a tantissimi altri personaggi famosi.
Già, perché in quell'epoca era scontato che fosse così. Sei ebreo, tanto basta per aprirti le porte del lager. Ma anche zingari, omosessuali, intellettuali, qualunque cosa si frapponesse tra il delirio e il sogno della razza pura.

L'aria che tira, oggi, è quella paludata e silenziosa dello sdoganamento della peggior destra, quella che ciancia all'aria di "razza bianca" da proteggere, di rigurgiti neonazisti incubati nei social e legittimati nelle comparsate nelle strade e nei programmi tv, di Forza Nuova che raccoglie firme nelle piazze dedicate ai martiri della Resistenza, di braccia tese per esultare dopo il gol, di partiti dichiaratamente neonazisti e neofascisti avallati dal voto, di irruzioni squadriste, di liste di giornalisti ritenuti scomodi e da mettere (per ora) alla gogna.

E di un becero pot-pourri in cui - anche di fronte alla crisi di rappresentanza dei partiti - si mescolano rivendicazioni di mondi puri, di muri, di movimenti che alzano la testa sentendosi forti e pronti ad individuare un nemico, preferibilmente gli immigrati, ma con un ventaglio talmente ampio da poterci inserire chiunque (gay, la sinistra, le banche, i politici, i vicini di casa rumorosi, i tifosi della squadra avversaria, gli hipster, i vegani, le cavallette!) seguendo l'imperante logica degli haters che trasforma gli avversari in nemici da annientare. Un esercito di avversari su cui riversare le colpe, tutte, di una crisi economica che morde.

Un piano inclinato in cui scivolano lentamente, ma inesorabilmente, parole d'ordine che poco alla volta si accasano all'interno della routine del dibattito politico, che si irrobustiscono di giorno in giorno, in un contesto di sciatta ignoranza e di infida indifferenza, che non fa che confermare quel che George Santayana disse a proposito di Auschwitz: "Chi non sa ricordare il passato è condannato a ripeterlo".

Per chi voglia rinfrescare la memoria, suggerisco una visita al Museo Ebraico di Bologna, dove - fino al 18 marzo - si può visitare la mostra "Arpad WEISZ dal successo alla tragedia".

giovedì 18 gennaio 2018

Allora?


Non vedevo Stefano da qualche mese. L'ultima volta, ma vado a memoria, è stato qualche mese fa in una via del centro. Un saluto affettuoso, due chiacchiere, un abbraccio. Nessun cenno alla malattia, non ne sapevo niente. E oggi leggo che se n'è andato.
Stefano Girolamo è stato il mio barbiere per circa 20 anni.
Nel 1991, fresco di laurea e con il portafogli quasi vuoto, vagavo per il centro di Modena - dove mi ero appena trasferito - alla ricerca di un barbiere. Unico obiettivo: spendere meno soldi possibile.
Il criterio che mi ero dato, un po' naif - ne convengo - era individuare la vetrina meno attraente. Pensavo, sbagliando, che valesse l'equazione vetrina poco appariscente = tariffa più conveniente.
E così, in Corso Canalgrande, quella vetrina del salone di Massimo e Stefano mi era sembrata perfetta. Luci basse, un minuscolo cartello con gli orari. Nient'altro. E, una volta entrato, la mia sensazione si era addirittura irrobustita: un divanetto e due sedie per i clienti, i giornali con i faccioni dei vip, 20 metri quadrati in tutto, o giù di lì. Non c'era nessuno, quindi era arrivato subito il mio turno e mi ero accomodato alla poltrona di Stefano.
Naturalmente avevo visto subito che le tariffe erano identiche a qualunque altro salone (e qui ha sempre ragione Guccini quando canta "A 20 anni si è stupidi davvero"). Ma non era stato quello a colpirmi. 
Se dovessi usare un'immagine a costo di sembrare retorico, potrei dire che mi ero subito sentito come fossi a casa mia. Io e Stefano avevamo chiacchierato del più e del meno, gli avevo detto che avevo iniziato da qualche settimana a collaborare con la Gazzetta di Modena e che il mio sogno era di diventare un giornalista d'inchiesta. 
A quel punto lui, senza dire una parola, si era spostato verso lo specchio e, con le forbici, mi aveva indicato una piccola cassettina marrone con un gancio che la chiudeva.
"Sai cos'è"? - mi aveva chiesto.
"Non ne ho idea". Come potevo?
E, in un minuto, mi aveva aperto un universo da raccontare: quella era la cassetta che conteneva pennello da barba, forbici e rasoio con cui lui, Massimo e - prima di loro, il padre di Massimo - per 30 anni,  tutte le mattine, erano andati nella casa di Enzo Ferrari per il taglio mattutino.
Cercavo la vetrina meno appariscente ed ero entrato nel salone dei barbieri del Drake. 
Nel mio ingenuo (ma certamente trasparente) animo di giovane cronista, era esplosa una curiosità incontenibile. E così, nel giro di pochi giorni, quella chiacchierata era diventata una pagina sulla Gazzetta di Modena. Ricordo ancora il titolo (che non avevo fatto io, ma questa è un'altra storia): "IL CAPELLO DEL DRAKE", in cui raccontavo questa magnifica storia di eccellenza racchiusa lì sotto i portici.
Stefano e Massimo avevano messo in cornice la pagina. Ed era stata la prima di tante, perché poi - con un effetto moltiplicatore - la curiosità su questa cosa aveva contagiato tanti giornalisti (anche da Usa e Giappone) che, con una continuità regolare, negli anni avevano continuato a presentarsi alla porta del salone per poterla raccontare.
Stefano godeva da sempre in cuor suo dell'esperienza di aver tagliato per anni i capelli al Drake, senza bisogno di raccontarlo a destra e a manca. E gli bastava questa sensazione, non era certo cambiato per quella piccola quota di celebrità cittadina che poco alla volta aveva illuminato la scena del loro salone. Un salone, tra l'altro, che poi avevo scoperto essere punto di riferimento per un sacco di amici che lo frequentavano, a cominciare da Sebastiano Colombini, compagno di bisbocce e di lavoro alla Gazzetta.
A me questo piaceva di Stefano: la semplicità. Mi piacevano le chiacchiere non forzate. Mi piaceva quel suo modo in cui, quando - sigaretta in bocca (allora si poteva) - mi sistemava la mantella intorno al collo e mi chiedeva: "Allora?".
Tutto qui: Allora?
Mentre mi tagliava i capelli, senza dire niente si allontanava nel retrobottega, accendeva una sigaretta e dava due tiri. Poi tornava alla postazione e ricominciava, facendo avanti e indietro per finire la sigaretta.
Con qualche eccezione di non poco conto, come quella volta - che ancora rido - in cui aveva appoggiato le forbici davanti allo specchio, mi aveva detto "Scusa un attimo", si era infilato la giacca ed era uscito, per rientrare dopo quasi 20 minuti, ripresentarsi alle mie spalle e chiedermi semplicemente "accorcio ancora un pochino o va bene così"?
Quando non ne aveva voglia, mi chiedeva "Allora"? senza poi rispondere alle cose che gli raccontavo. Che era esattamente ciò che si si aspetta da un amico, la tranquillità di non sentirsi obbligati a dire o fare niente di forzato. Anche se poi, alla fine del taglio, mi chiedeva sempre: "Caffè?". E attraversavamo la strada per raggiungere il bar, raccontarci ancora piccole cose, e salutarci. Alla prossima,ciao, ciao.