“Non sto tanto bene. Ci vedo male, un
po’ offuscato ”.
Mi dici così, mentre mi baci e sposti
indietro i capelli in un gesto che ti ho vista fare tante volte. Sei
bellissima Ilaria, lo penso tutte le volte che ti vedo, anche se siamo sposati
da 17 anni e ci conosciamo dai tempi dell’università.
Sono le cinque e mezzo del pomeriggio e a
Bologna è buio. D’altro canto è il 14 gennaio, siamo nel cuore dell’inverno, le
giornate sono ancora cortissime. L’aria è secca, ma non c’è il freddo che
ti aspetteresti.
Mi avevi telefonato da Modena un paio
d’ore prima: “Ho il pomeriggio libero, quasi quasi prendo il treno, vengo a
Bologna, guardo qualche vetrina e poi torniamo insieme a Modena quando finisci
di lavorare. Ok?”.
“Ok”, ti avevo risposto. “Alle cinque devo
intervistare uno. Finisco di fare l’intervista e poi ci vediamo in via San
Carlo”.
Alle cinque e mezzo ci vediamo sotto il
portico, proprio di fronte al fornaio.
“Non sto tanto bene. Ci vedo male, un
po’ offuscato ”, mi dici appena mi vedi.
“Sarai un po’ stanca, sarà un calo di
pressione”. Boh, che ne so.
“Ma si, si. E poi ho mangiato poco a
pranzo”, dici tra te e te, a bassa voce. E cammini di fianco a me, guardando
per terra.
“Vuoi che facciamo qualche ripresa”?, ti
chiedo. “Ho la telecamera nello zainetto, se vuoi ci mettiamo pochi minuti”.
Lavoro da un anno a un documentario su via
San Carlo. Questa cosa del documentario più di una volta ti ha fatta incazzare:
“Già sei poco a casa, in più ti fermi anche a fare ‘sta roba”, mi hai detto un
paio di volte.
So che non c’entra via San Carlo, è solo che sono poco a
casa. Pochissimo. E questa cosa ti pesa, devi pensare a tutto tu. Alla casa.
Alle ragazze, Francesca, Giulia, le nostre meravigliose bimbe, anche se
sono già grandi, nell’imbuto dell’adolescenza. Ma un giorno mi hai spiazzato:
“Mi piacerebbe esserci”.
“Dove”?
“Nel documentario. Mi riprendi mentre
cammino sotto i portici”, mi hai detto qualche settimana fa.
E adesso ci siamo, in via San Carlo. Me lo
chiedi di nuovo: “Mi riprendi mentre cammino?”.
“Si, tu fai finta che io non ci sia.
Cammina senza guardare l’obiettivo della telecamera, ignorala. Guarda avanti,
come se io non ci fossi e mi passi di fianco, ok?”.
Fai qualche passo e ti allontani, poi ti
giri. Sei sotto le volte del portico, male illuminato.
“Ok, adesso cammina verso di me”, ti dico.
Fai qualche passo, mi passi di fianco e poi
ti fermi.
“Facciamo un’altra ripresa per sicurezza”,
ti dico.
Prima di spegnere la telecamera guardiamo
come sono venute le immagini: “Non mi si vede neanche in faccia”, dici. E in
effetti è così, luce alle spalle, il tuo viso rimane nell’ombra.
“Vuoi che rifacciamo?", ti chiedo.
“No, dai, andiamo a casa. Ho questo
fastidio che non passa, andiamo a casa, facciamo un’altra volta”.
Ci prendiamo per mano, ti racconto piccole
cose insignificanti mentre ci avviamo verso la stazione, ma vedo che sei da
qualche altra parte con la testa. “E se ho qualcosa di grave”?, dici
improvvisamente.
“Ma dai, figurati”.
“C’è questa cosa strana, non ci vedo bene,
ma in un modo che non so spiegarti. Vedo come delle macchie. E poi nel mezzo
c’è qualcosa, vedo un po’ male nel mezzo. Vedo tutto un po’ sfocato. E ho mal
di testa”.
“Ma si, dai, sarai stanca. Andiamo a casa e
stasera ci prendiamo una pizza, puro polleggio, senza cucinare”.
“Va bene, riusciamo a prendere il treno
delle 6 e 52?”.
“Se ci diamo una mossa prendiamo quello
prima, quello delle 6 e 28”,
ti dico.
Acceleriamo un po’ il passo, ma l’ansia non
molla la presa, te lo leggo in faccia. ”Senti Ila , chiama Valeria e le
racconti cosa ti sta succedendo, così almeno non rimani con questo pensiero”.
Valeria è tua sorella, è un medico, lavora in un Pronto Soccorso. E’ brava, e
naturalmente tu ti fidi doppiamente di lei, dato che è tua sorella.
La chiami mentre siamo quasi in vista della
stazione, ascolto quel che le dici mentre camminiamo, ti sento ridere, sei più
tranquilla.
“Mi ha detto di andare al pronto soccorso
se questa cosa non smette entro mezz’ora”.
“Beh, fermiamoci qui a Bologna”, propongo.
“Ma no, andiamo a Modena, mi passerà”.
“Sei sicura? Non vuoi che ci fermiamo
almeno in farmacia per chiedere qualcosa?”.
“No, dai, andiamo, sono stanca”.
Sul piazzale della stazione di Bologna
incontriamo anche Patrizia, una collega di lavoro. Un saluto veloce, due
chiacchiere al volo, poi noi ci dirigiamo al piazzale Ovest.
E lì mi dici: “E se ho un ictus”?
“Un ictus? Beh, prima devi firmare i
documenti per l’eredità, così finalmente posso comperarmi la villa con la
piscina. Poi fatti pure venire l’ictus”.
Ci facciamo due risate, in 17 anni di
matrimonio il mio umorismo nero ha fatto breccia, in qualche caso è stato
l’unico sistema per sciogliere i nodi delle tensioni. Ma poi torni seria: “Se
prima o poi dovesse succedermi qualcosa, stacca tutti i fili, io non
voglio rimanere un vegetale”.
“Vai tranquilla Ila, passo io e stacco
tutto”.
Saliamo sul treno, io sfoglio il giornale e
tu mandi un messaggio alle tue amiche per dire che quella sera non andrai in
palestra. Poi infili gli occhiali da vista e il tuo viso si illumina: “Con gli
occhiali ci vedo molto meglio, è tutto più nitido”.
“Ma si, vedrai, è solo questione di
stanchezza. E poi stai invecchiando, stai diventando una talpa, come me, che
senza occhiali non vado da nessuna parte”.
La Repubblica, il martedì, ha un inserto
dedicato alla salute che io di solito cestino senza neanche leggerne una riga,
perché è pieno di tutte le possibili sfighe che ti possono capitare e io, da
buon ipocondriaco, preferisco altre letture. Lo butto sempre via.
Quel giorno, però, non lo faccio, me ne dimentico, perciò mi
imbatto senza volerlo nella pagina di apertura del fascicolo, dove si parla
della possibilità di ridare la vista – con un occhio elettronico – a chi l’ha
persa o a chi non l’ha mai avuta.
Giro il giornale verso di te: “Anche se ci
vedi male sei a posto, visto? Mal che vada ti mettiamo un occhio bionico”.
Ridi, mi mandi a cagare.
Mentre il treno supera Castelfranco
rispondi al telefono, è Giulia che ti saluta. Chiudi la telefonata, poi suona
il mio cellulare: è sempre Giulia: “Ciao papi, tutto bene”?
“Si, certo, tu tutto bene? Ma non hai
appena chiamato la mamma?”
“Si, come fai a saperlo”?
“Sono qui con lei sul treno, tra poco
arriviamo a casa”.
“Papi, io però vado in palestra, mi vieni a
prendere alle otto e mezzo”?
“Si, stasera mangiamo la pizza”.
“Wow!”
“Ci vediamo dopo, ciao”.
Chiudo la telefonata mentre il treno entra
nella stazione di Modena e il mio cellulare squilla di nuovo. Questa volta è
Andrea, mio fratello.
Scendiamo dal treno, tu mi precedi sul
marciapiedi mentre io chiacchiero al telefono. Ti vedo un po’ indecisa prima di
imboccare il sottopassaggio, come se non sapessi da che parte andare.
E’ un segnale, ma non lo colgo.
Ti indico con un dito le scale mentre
continuo a parlare al cellulare.
Scendiamo nel sottopassaggio, poi risaliamo
e usciamo sul piazzale.
Siamo a Modena, sono quasi le sette di
sera. Non lo sappiamo, ma stanno per iniziare i momenti più terrificanti della
nostra vita.
Mentre camminiamo sotto al portico che
conduce alla rotatoria di piazzale Natale Bruni, ti volti qualche volta
indietro. Cammini qualche passo avanti a me. C’è più freddo rispetto a Bologna
e tu, per ripararti, ti stringi in te stessa, con le mani che in un
abbraccio vanno a coprire le spalle. E, più di una volta, ti giri indietro.
Io non ci faccio caso, ma quel semplice movimento, quel guardare indietro
è invece un segno inequivocabile di quello che sta per accadere. Lo avremmo
capito solo nei giorni successivi, rimettendo in ordine i ricordi di quei
momenti.
Attraversiamo le strisce pedonali ai piedi
del cavalcavia. Dobbiamo andare verso sinistra, ma tu tiri dritto, sei una
decina di metri più avanti di me. Io, che sono ancora al telefono, ti chiamo:
“Ila”. Tu non ti giri. Ti chiamo con più insistenza. “Ilaa, Ilaaa”. Niente, non
ti giri.
Dico a mio fratello al telefono: “Aspetta
un attimo”, poi dico più forte. “Ilaaaaa”. E dai,penso, muoviti, ma dove stai
andando?
Ti giri solo per un attimo verso di me e
poi ti volti, dandomi nuovamente le spalle.
Io rimango pietrificato.
Non sono sicuro di avere visto bene.
In un secondo ti raggiungo, ti giro verso
di me e il mondo finisce in quel momento.
Il tuo viso è deformato, l’occhio sinistro
e la bocca hanno una piega completamente innaturale, che ti cambia il
volto.
Tutto si fa buio intorno a me, tutto
ciò che ci circonda in quel momento scompare e rimani tu che mi fissi smarrita
mentre riesco solo a dire “oh, cazzo, cazzo!”. Mio fratello, è ancora lì ad
aspettare che riprenda la telefonata: “Andrea, ti mollo”, urlo. E
immediatamente chiamo il 118, mentre tu mi guardi senza capire.
“Presto, venite, mia moglie ha un ictus in
atto. Siamo in piazzale Natale Bruni”. Dico proprio così: un ictus in atto,
come se avessi appena sfogliato un dizionario medico alla voce “ictus”. Tu mi
guardi e mi dici: “Ma che cavolo stai dicendo”?? Anzi, provi a dirlo, perché
non riesci a parlare. E te ne rendi conto solo in quel momento. Non ti eri resa
conto di cosa stava succedendo neanche quando tutto stava succedendo.
Sul tuo viso alterato non si muove niente,
l’ictus ti ha paralizzata in un’espressione fissa che mette una distanza
abissale tra noi due, tra te e il mondo. Provi a parlare, ma ti esce solo
un suono indefinito, monocorde, mmmmmmmmmmm, mmmmmmm.
“Venite, presto”, continuo al telefono. La
sensazione della catastrofe mi avvolge, ma da qualche parte ci dev’essere una
riserva di lucidità che mi spinge a mantenere la calma, a parlarti
tranquillamente. Ti prendo sottobraccio mentre tu continui a guardarmi con
quell’espressione bloccata e provi a parlare, senza riuscirci. Spiego al 118
dove siamo, in quale punto del marciapiedi che circonda la grande rotatoria. Mi
incasino, ovviamente, perché dico che siamo dal lato della stazione, anche se
siamo dalla parte della chiesa.
Decido di avvicinarmi al semaforo pedonale
mentre ti tengo stretta. Camminiamo piano e io ti ripeto con calma quello che
sta succedendo, cercando di minimizzare le cose: “Hai l’occhio un po’
chiuso”, mento, “ma per fortuna siamo arrivati in tempo, non ti preoccupare”.
Sparo cazzate a raffica, non ho la minima idea di quel che sta
succedendo, vedo solo che il tuo viso è deformato, la tua voce non c’è più. E
tu cominci a non reggerti in piedi, la parte sinistra del tuo corpo comincia a
non rispondere. “Tranquilla Ila, tutto ok, tutto ok, per fortuna siamo arrivati
in tempo”, continuo a dire. Ma parlo da solo. Ti tengo stretta, ma non
reagisci, mi guardi con quell’espressione che non dice niente. Io comincio a
credere che tu non ci sia più, che tu non abbia coscienza di quello che sta
succedendo, che tu ti stia allontanando con la mente verso chissà quale
lido da cui potresti non tornare mai.
Suona il cellulare, è il 118 che mi
ricontatta per chiedermi dettagli. Mi chiedono se sei cosciente. "Si. È
cosciente", rispondo. Mi chiedono se cammini. "Si, cammina, ma fa
sempre più fatica, la sto sorreggendo". Mi dicono di tenerti tranquilla, o
almeno credo di capire questo.
Arriviamo in pochi passi al semaforo
pedonale, io non riesco più a tenerti, il tuo corpo non risponde e ti devo
tenere quasi in braccio. Al semaforo ci sono altre persone, che non colgono
quello che sta succedendo, vedono solo una coppia malamente abbracciata, con
lei quasi appesa a lui. Non so dove trovi la lucidità, ma improvvisamente metti
la mano destra nella tasca della giacca, estrai le chiavi della macchina
e me le dai provando a dire qualcosa, provando a stare in piedi. Ma ormai non
stai più in piedi, ti sorreggo e chiedo a un uomo lì di fianco di aiutarmi: “Mi
può aiutare? Mia moglie sta male”, dico. E ti stendo sull’asfalto, con il viso
rivolto al cielo, la schiena sulle strisce pedonali.
Qualche persona comincia a farsi intorno a
noi, io mi chino su di te, continuo a parlarti anche se non capisco se riesci a
sentirmi, se capisci. Ma il fatto che tu mi abbia dato le chiavi della macchina
mi fa pensare che tu sia lucidissima, anche se totalmente inerme.
Il traffico scorre veloce a mezzo metro da
noi, qualcuno si mette in mezzo alla strada a deviare leggermente le auto per
evitare che possano travolgerci. E io ti tengo la mano continuando a dirti che
per fortuna abbiamo preso questa cosa in tempo. Ma è solo per darti coraggio,
perché io comincio ad avere la sensazione di averti persa. Tu guardi da qualche
parte, indefinita. Io ti guardo ma non so cosa fare. Siamo due mondi
completamente separati, non c’è possibilità di comunicazione.
Comincio a pensare a cose pratiche, alle
ragazze che ci aspettano a casa, a cosa dirò, al fatto che stanotte la passerò
certamente all’ospedale con te e con le ragazze, a cosa ci aspetta da qui alle
prossime ore. A come finirà.
Si sentono le sirene dell’ambulanza in
lontananza, ti faccio coraggio: “Ecco, sono già qui”. Mi alzo in piedi, guardo
in direzione delle sirene, ma non vedo niente. Quasi contemporaneamente mi
cercano di nuovo al cellulare. E' il 118, mi dicono che non riescono a trovarmi e
allora spiego dove sono, dico che siamo di fronte al Tempio, che siamo proprio
in corrispondenza del semaforo pedonale prima del cavalcavia. L’ambulanza fa un
giro a vuoto nella rotatoria, passa a pochi metri da noi e esce dalla parte
opposta. Cazzo no, non da quella parte, non da quella parte!!
Urlo per la prima volta, urlo alle persone
che sono lì intorno di fermare l’ambulanza, di fare qualcosa. E in tre corrono
al centro della rotatoria, fermano il traffico, si sbracciano per farsi notare
dall’ambulanza che intanto si è riavvicinata. E’ questione di pochi secondi.
L’ambulanza nota il trambusto nella nostra zona, si ferma immediatamente
proprio di fronte al Tempio e subito scendono due addetti che corrono veloci
verso di noi.
Si chinano su di te, ti chiamano. “Ci
sente? Ci sente?”, ti chiedono. Tu non rispondi, sei immobile anche se hai gli
occhi aperti. “Faccia un cenno con la testa”, ti dicono. E tu rispondi con un
cenno. Si, li senti. “Come si chiama”?
Se ci fosse una parte comica, questo
sarebbe il momento. Uno dei due medici, chino su di te, si gira verso di me e
mi chiede: “E’ sua figlia”?
Beh, vabbè che la mia stempiatura ha
raggiunto un livello record e che i pochi capelli che mi sono rimasti virano al
grigio senza pietà, ma che dimostrassimo trent’anni di differenza proprio non
me l’aspettavo. Ma i tuoi capelli biondi stesi come un foulard lì
sull’asfalto e i tuoi occhi azzurri, ti danno evidentemente un’aria da
ragazzina. “E’ mia moglie”, rispondo, e dentro di me un po’ rido e penso:
“Questa domani la racconto a Paolo e Davide”.
Ti prendono la mano destra e ti dicono di
stringerla. La stringi.
Ti prendono la mano sinistra e ti dicono di
stringerla. Tu pensi: “Dov’è la mia mano sinistra? Dov’è il mio braccio
sinistro? Dov’è la mia parte sinistra”? Non c’è. Il tuo cervello l’ha
cancellata.
“Stringa la mano sinistra”, ti ripetono.
Niente.
“Stringa la mano destra”. E tu la
stringi.
“Adesso la sinistra”. Niente, la sinistra
non c’è.
Nel frattempo è arrivata una seconda
ambulanza, un’auto medica, credo.
Ti fanno ancora qualche prova, sono in tre
su di te. Mi chiedono di mettermi un po’ in disparte.
“E’ un ictus”, dice uno dei medici.
“Ecco”, penso io.
Ti caricano velocissimi sulla barella
e ti portano verso l’ambulanza. Sento uno dei medici che dice di avvisare
il Pronto Soccorso che stanno arrivando con un ictus. Io ti seguo a piedi per
qualche metro, entro nell’ambulanza, ma il medico mi dice di scendere, che li
dovrò seguire con la macchina, andranno all’ospedale di Baggiovara, il
Sant’Agostino Estense, alle porte di Modena.
Una donna, un medico, scende dall’ambulanza
e mi chiede di rispondere a qualche domanda. Come ti chiami, dove e quando sei
nata. Poi mi chiede quando hai iniziato ad avere i sintomi: “E’ fondamentale
essere precisi nei tempi”, mi dice. Lo ripete: fondamentale. Io dico che ci
siamo visti intorno alle cinque e mezzo e che tu mi avevi detto che da una
mezz’oretta non stavi bene. Lei indossa i guanti monouso, azzurri. Scrive sulla
superficie di quello che indossa sulla mano sinistra. “E’ allergica a qualche
farmaco”? “No”, rispondo sicuro. Mi chiede se prendi farmaci, poi insiste di
nuovo sull’eventuale allergia a qualche medicinale, bisogna essere sicuri. Io
rispondo a tutto. Poi sale sull’ambulanza e chiude la portiera.
Dal momento in cui ho chiamato il 118 a quando se ne vanno a
sirene spiegate, dopo aver fatto tutti i test lì sul posto, sono passati 15
minuti. Sono stati velocissimi. E adesso volano verso Baggiovara. Dentro, i
medici, continuano a dire al conducente: “Passa con il rosso, vai, vai passa
con il rosso!”. Durante il tragitto i medici ti tengono monitorata, tra di loro continuano a dirsi che non riesci
a parlare.
Tu, dentro di te, ripeti come un mantra:
“Non sta succedendo a me. Non sta succedendo a me”.
Io rimango con l’ultima immagine che ho di
te: stesa sull’asfalto, muta, semiparalizzata.
Chiamo subito Valeria, tua sorella: “Ilaria
ha avuto un ictus”, le dico, anche se faccio un po’ fatica a parlare.
“Dove la stanno portando?”, chiede lei?
“A Baggiovara”.
Valeria dice che ci raggiungerà al più
presto, di tenerla aggiornata. La saluto e metto giù, ma quasi subito lei mi
richiama: “Se ti chiedono l’autorizzazione a farle la trombolisi tu dagliela”,
mi dice. Io non ho la minima idea di cosa sia la trombolisi, immagino che si
tratti dell’intervento che le dovranno fare. Ok, dico, trombolisi.
Torno al semaforo, raccolgo il mio
zainetto, la tua borsa e la giacca che ti hanno tolta per visitarti. Tutto ciò
a cui riesco a pensare in quel momento è l’organizzazione: primo, chiamare
Giulia che sta per iniziare l’allenamento di ginnastica artistica. Se non ha
ancora iniziato passerò a prenderla, poi passeremo a casa a prendere Francesca
e, insieme, andremo all’ospedale. E poi quel che sarà, sarà.
Chiamo Giulia, il telefono suona a vuoto.
Mai una volta che rispondano, né lei né Francesca. Dopo qualche istante
mi arriva un messaggio su Whatsapp: “Papi, sono a ginnastica”, scrive Giulia.
Rispondo: “Ti viene a prendere la Ceci. Poi
ti spiego”.
Poi chiamo Francesca sul cellulare. Niente,
non risponde neanche lei. Chiamo sul telefono di casa, finalmente
risponde:
“Ciao Franci”
“Ciao papi, scusa ma non sono riuscita a
rispondere al cell, ero di là”
“Franci, senti, ti devo dire una cosa. La
mamma non è stata tanto bene”
“Oddio papi cosa succede!??!”
“No, no, niente, tranquilla. Non è stata
tanto bene, aveva mal di testa, ma un mal di testa forte e allora abbiamo
pensato che fosse meglio portarla all’ospedale per un controllo. Io sto andando
lì, vuoi venire con me”?
“Ma ovvio, certo che vengo. Ma papi sei
sicuro che va tutto bene?”
“Si, si, adesso arrivo. Senti, fatti
trovare giù, portami il caricabatterie del mio cellulare”.
Salgo in macchina e chiamo Cecilia. Le devo
chiedere di andare a prendere Giulia in palestra, io non saprei come fare.
Ma non risponde, allora chiamo Oreste, suo marito. “Ciao Stefano”,
risponde lui. “Oreste, ciao. Senti, abbiamo un’emergenza. Purtroppo Ilaria ha
avuto un ictus”.
“Nooooo, non è possibile. Oh nooo”, dice
Oreste. Sento la sua disperazione, siamo amici da tanti anni, lui è un
informatore farmaceutico, sa esattamente di cosa stiamo parlando. Sa che stiamo
camminando su un filo. “Oreste, io mi sto fiondando a casa a prendere la
Francesca, potete andare voi a prendere la Giulia in palestra? Lei non sa
ancora niente, non volevo dirglielo con un messaggio”.
“Andiamo noi, si”, dice Oreste. Sento la
sua voce rotta, tutto intorno a noi precipita. Chiudo la telefonata mentre
percorro in macchina la discesa del cavalcavia che fiancheggia lo stabilimento della Maserati.
Arrivo sotto casa, Francesca è già lì in
strada che mi aspetta. Sale in macchina: “Come sta la mamma”?
“Franci, la mamma ha avuto un ictus”, le
dico. Francesca ammutolisce.
“La cosa buona – spiego – è che siamo stati
velocissimi. Adesso andiamo lì, è in buone mani”. Ma lo dico solo per darle
coraggio. Non ho nessuna idea di che cosa stia realmente succedendo.
“Ma cosa può succedere papi?”
“Non lo so Franci. La cosa buona è che
siamo stati velocissimi”, ripeto. Ma invento.
Francesca ha sedici anni, non posso
comunque trattarla come se fosse una bambina: “Franci, dobbiamo prepararci al
fatto che ci aspetta un periodo molto pesante. Comunque andrà, adesso stiamo
tutti vicini alla mamma, ma vedrai che andrà tutto bene”.
“Si”, risponde Francesca con un groppo in
gola che non la fa parlare. Piange nel buio della macchina mentre sulla
tangenziale voliamo verso l’ospedale.
“Ascoltiamoci un po’ di musica”, dico
accendendo la radio.
Ripeto a Francesca che dobbiamo essere
forti, stare vicini. Lei annuisce.
Mi chiede se morirai.
Entriamo al Pronto Soccorso e ci fanno
accomodare nella sala d’attesa di un ambulatorio. A pochi metri da noi, dietro
una porta, ci sei tu. Sei arrivata già da un po’. Quando ti hanno scaricata
dall’ambulanza è stato come assistere al pit stop di un gran premio di formula 1. In cinque o sei ti si sono
fatti intorno, ti hanno spogliata, ti hanno messo un camice e la procedura è
partita. Bisogna capire cosa succede, dove si annida il grumo di sangue che chiude l'arteria e che
sta provocando l’ictus, bisogna fare in fretta. Hai freddo, hai molto freddo. La
tac risulta mossa perché hai i brividi, tremi. Ma si capisce comunque
perfettamente cosa ti sta succedendo.
Noi aspettiamo fuori. Francesca si infila
le cuffie, la musica le attutisce l’ansia.
Esce un medico, una donna. E’ uno dei
medici che compone lo staff della Stroke Unit di Baggiovara, l’unità che si
occupa del trattamento degli ictus. E’ un’unità di rilievo internazionale visti
i risultati, ma io ancora non lo so. La dirige Andrea Zini, un medico giovane,
bravo. Guida con sicurezza un team giovane e affiatato. Questo, alla fine farà
la differenza. La dottoressa ci dice che a minuti uscirà Stefano Vallone, il
neuroradiologo che si sta occupando di te. Ci darà tutte le informazioni. Ha
già parlato con te, ma non puoi rispondere, perciò illustrerà a me quel che
succede. Nel frattempo ti hanno fatta scrivere su un foglietto, che la
dottoressa mi porge. La scrittura è incerta, ma è tutto chiaro. Come prima
indicazione mi scrivi di chiamare Valeria. Già fatto, penso. Poi dici di
occuparmi di Giulia, che è in palestra. Anche a Giulia abbiamo pensato. Poi ci
sono altre scritte, tra cui avvisare i tuoi genitori.
Aspettiamo qualche istante, poi dalla
stanza esce Vallone.
Ci spiega che hai una sofferenza cerebrale
dovuta a un ictus. L’ictus è stato causato dalla dissezione della carotide e
successiva formazione di un trombo che è andato a occludere il flusso del sangue
in una zona del cervello. L’80% di quella zona sta soffrendo. Bisogna fare in
fretta prima che i danni cerebrali diventino irreversibili.
Ci dice che a Baggiovara hanno una metodica
che ha dato buoni esiti, ma i tempi sono fondamentali, perciò bisogna agire
subito.
“La trombolisi”, dico io.
Lui, paziente, dice che ci sono due strade.
La prima sarebbe quella di effettuare la trombolisi, cioè il trattamento
farmacologico che scioglie il trombo e garantisce di nuovo l’irrorazione del
cervello.
Ma nel tuo caso c’è un problema che
complica tutto: l’arteria da cui è partito il trombo, la carotide, è
lesionata. Ogni arteria è fatta di tre cerchi concentrici. Quello più interno
si è staccato e si è spostato verso il centro, formando una piccola rientranza,
una sacca che sporge verso la zona centrale della carotide. E’ proprio in
quella sacca che il sangue si è coagulato e che poi si è consolidato in
un grumo che è partito verso il cervello. Quindi c’è un doppio problema: il
trombo, su nel cervello; e l’arteria lesionata, più giù, all’altezza del collo.
Vallone non ci gira intorno e dice che non
sa come si comporterà nei prossimi minuti la carotide. Il rischio potenziale è
che l’arteria, dopo la dissezione che ha provocato la formazione del trombo,
improvvisamente si chiuda del tutto, impedendo al sangue di salire al cervello.
Se questo dovesse succedere, sarebbe un disastro.
Se scegliesse di iniziare a effettuare la
trombolisi e la carotide si occludesse proprio durante il trattamento, spiega
Vallone, a quel punto lui non potrebbe più fare niente e non ci sarebbero
possibilità di tornare indietro.
Quindi, niente trombolisi.
L’ipotesi, allora, è di occuparsi
innanzitutto della carotide, metterla in sicurezza, in sostanza aggiustarla,
riparare la zona lesionata con uno stent, una gabbia che sostituisce la parte
lesionata dell’arteria. Poi, una volta messa in sicurezza la carotide, risalire
fino all’arteria cerebrale e rimuovere il grumo di sangue con uno stenttriever, uno
strumento che permette di intrappolare il trombo e recuperarlo, liberando
l'arteria. Questo intervento, che io trovo fantascientifico, si chiama
trombectomia.
Ma i tempi – ripete Vallone – sono
strettissimi. Scommettiamo sui tempi per avere buon esito, ma bisogna fare
presto, dice.
Io dico “certo, va bene”. E un secondo dopo
lui è già rientrato nell’ambulatorio, dove tu sei sveglia e lucida, ma non puoi
parlare.
“Vedrai che andrà tutto bene Franci, siamo
in buone mani, hai sentito il dottore? Vedrai che adesso sistemano tutto. Dai
dai dai che tutto si sistema”, dico alla Francesca stringendola. Lei si asciuga
le lacrime.
Una dottoressa si avvicina a noi e mi dice:
“Vorrei spiegarvi di nuovo quello che sta succedendo, perché non sono sicura
che abbiate capito cosa sta succedendo”.
Francesca si fa piccola dentro il cappotto,
quasi ritraendosi, e affonda le mani dentro le tasche, aspettando le parole
della dottoressa.
“Sua moglie ha una seria sofferenza
cerebrale, che comporta…”
Io la fermo, le dico che può parlare
liberamente e apertamente se ci sono delle cose da sapere. Dico che mia figlia
è grande, quindi può dirci quello che ci dobbiamo aspettare. La dottoressa
allora guarda Francesca, le chiede quanti anni ha.
“Sedici”, risponde Francesca.
“Sedici”, osserva la dottoressa. “Sei
grande, si. Grande, ma ancora così giovane”. E poi ci spiega di nuovo quello
che sta succedendo. Ma non aggiunge niente di nuovo, avevamo capito che eravamo
in una situazione di rischio estremo. Francesca fa qualche domanda alla
dottoressa, soprattutto quando parla di “rischi”, di “conseguenze”. Chiede
quali rischi, quali conseguenze. Poi la dottoressa rientra nella stanza in cui
stanno iniziando a intervenire sulla carotide. Entreranno con una sonda
dall’arteria femorale e risaliranno per posizionare lo stent.
Nel frattempo nella sala d’aspetto del
Pronto Soccorso è arrivato Oreste. Faccio qualche telefonata, chiamo Paolo, da
cui sarei dovuto andare quella sera e gli racconto cosa sta succedendo. Lui
dice che arriverà subito lì a Baggiovara. Gli dico che mi fa piacere. Rispondo
ai messaggi che iniziano ad arrivare. Mio fratello Andrea, con cui stavo
parlando proprio mentre l’ictus si manifestava, mi scrive chiedendo cosa stia
succedendo. Ricevo una telefonata di Valeria, mi dice che sta arrivando a
Baggiovara insieme a tuo papà e tua mamma, Augusto e Gabriella.
Quando arrivano, racconto cosa sta
succedendo. Non ci sono parole, c’è poco da dire. Tuo papà Augusto, poi, è
laureato in medicina, ha piena consapevolezza di tutto. E tu sei sua figlia, la
consapevolezza deve fare molto male in questi casi. Poi Valeria può seguirmi
nella parte interna del pronto soccorso, in cui sono ammessi solo i parenti
stretti. Riesce a parlare con un medico. Alla parola “dissezione” non trattiene
lo stupore. Io non avevo capito che la dissezione della carotide fosse una cosa
così complessa, non sono un medico e non capisco il grado di pericolosità. Ma
intuisco che le cose sono evidentemente ancora più serie di quanto io
immaginassi. Parliamo dell’assurdità di quello che sta succedendo proprio a te,
che non hai nessun fattore di rischio. Hai solo 46 anni, vai in palestra, sei
magra, non fumi, non bevi, hai addirittura la pressione bassa.
L’intervento, intanto, procede. Noi
aspettiamo lì fuori dall’ambulatorio, ma facciamo anche avanti e indietro dalla
sala d’aspetto del Pronto Soccorso, dove nel frattempo sono arrivati in tanti.
Paolo, Davide, Oreste. E poi Piero, Enrico, Diana, Cecilia, Giacomo. E altri
che alla notizia si precipitano. Il mio cellulare suona, amici che chiedono
cosa stia succedendo, che si offrono di aiutarci nel modo che riteniamo più
idoneo, che ci fanno sentire la loro vicinanza.
Valeria spiega a tuo papà che si tratta di
una dissezione. E tuo papà, in quel momento, sembra perdere le speranze. La
dissezione di un’arteria difficilmente lascia scampo, pensa tra sé e sé, memore
dei suoi studi.
Giulia non è ancora arrivata, ma la sua
lezione di ginnastica è finita, tra poco sarà qui. E le spiegherò cosa sta
succedendo. Dovrà essere forte nella fragilità dei suoi 14 anni. Quando esce
dalla palestra rimane sorpresa. Non aveva letto il mio messaggio, non sapeva
che non sarei andato a prenderla. Ad aspettarla ci sono Cecilia, la moglie di
Oreste, e Carlotta, amica del cuore sia di Francesca che di Giulia.
La scusa con cui la accolgono è che tu sei
all’ospedale con un mal di testa molto forte. E le dicono che io sono lì con te. E poi il
discorso devia su cose la mettono subito in guardia. Nel tragitto verso
l’ospedale, infatti, Cecilia e Carlotta le fanno domande che sembrano fatte
apposta per prendere tempo, per non dare spazio a niente che non sia un
diversivo.
Giulia si irrigidisce appena un po’, ma non
fa domande.
Quando arriva al Pronto Soccorso, vede che
siamo tutti lì. Lei entra, io le vado incontro, la prendo sottobraccio e la
porto fuori con me, la mia voce cede mentre parlo, mentre le dico che la mamma
ha avuto un ictus.
Giulia piange disperata, mi abbraccia
forte, in un secondo è passata dalla prospettiva di una pizza e film in tv a
quella della mamma che rischia di morire. Io la abbraccio, le dico che però
adesso stai bene, che stai meglio, anche se sono frasi che non hanno senso. Nei
giorni successivi Giulia mi confiderà che quando io le dicevo “adesso sta
meglio”, lei si aspettava che io da un momento all’altro aggiungessi una cosa come
“adesso che è finito tutto, adesso che è in cielo”. Adesso che è finita, adesso
che ha finito di soffrire, sta meglio. Giulia teme che io dica questo.
Il tempo scorre, io e Valeria facciamo la
spola tra l’ambulatorio e la sala d’attesa. Continuano le telefonate. Chiamo i
miei, racconto senza troppe parole cosa sta succedendo. Mio papà mi richiama,
dice che il giorno successivo mia mamma verrà a Modena e starà lì fino a quando
ne avremo bisogno. Sento anche mio fratello Riccardo, mi dice di tenere duro,
loro sono idealmente con noi.
Dentro l’ambulatorio l’intervento procede.
La carotide deve essere messa in sicurezza, bisogna assolutamente stabilizzare
tutto e poi iniziare con l’intervento. Posizioneranno lo stent nella carotide e poi risaliranno verso il cervello: asporteranno il coagulo
che sta causando l’ictus, togliendolo dall'arteria cerebrale media destra.
Tu sei ancora ingabbiata in una dimensione
di distacco da tutto, non parli, non muovi il braccio sinistro. E nei giorni
successivi avremmo capito che quando eri sotto al portico, che ti giravi in
continuazione, lo facevi perché cercavi di capire chi fosse che ti toccava la
spalla.
Chi era?
Non c’era nessuno, era il tuo braccio. Ma
il tuo cervello non lo riconosceva più e tu lo percepivi come un corpo estraneo
appoggiato sulla spalla. Ecco perché ti giravi.
Per un momento sono fuori, nel piazzale del
Pronto soccorso.
Mi avvicina Francesca, in silenzio. Mi abbraccia. Mi chiede:
la mamma morirà?
Anche Giulia vuole sapere:
la mamma può morire?
Siamo noi tre, vicini. Io baro, dico che
non puoi morire. Spiego quali potranno essere le conseguenze.
Giulia mi chiede: “Ma potrebbe parlare come
Bossi”?
Nell’ambulatorio tutto procede. Tu sei
sveglia e cosciente, ti hanno fatto solo un’anestesia locale nella zona in cui
hanno inserito il catetere.
Bisogna evitare assolutamente che la carotide si chiuda, ripararla prima che questo possa succedere.
E invece succede.
Quello che non deve succedere, succede.
La carotide si chiude.
La sacca che si era formata,
improvvisamente collassa verso il centro dell’arteria e la chiude. Stop. Il
sangue non passa più.
Inizia il conto alla rovescia per le funzioni cerebrali.
Vallone, che nel monitor sta guidando il
catetere per posizionare lo stent, mantiene il sangue freddo. Ormai è
vicinissimo alla zona lesionata, alla zona che adesso si è chiusa. La decisione
di mettere innanzitutto in sicurezza l’arteria, si dimostra la scelta che
cambierà la tua vita, Ilaria.
L’abilità
di Vallone permette in pochi secondi di raggiungere la zona che si è
chiusa, forzare i tessuti e riaprire la carotide, posizionando lo stent. A quel
punto la tua carotide è di nuovo una galleria ampia dentro cui il sangue
riprende a scorrere a piena pressione. Questione di secondi, quelli che faranno
la differenza nella tua vita.
Immediatamente dopo, inizia l’intervento
per rimuovere il grumo di sangue dall’arteria cerebrale. Tutto procede
rapidamente. Vallone, sempre guardando il monitor, guida lo stenttriever sempre più su, fino
all’arteria cerebrale: il grumo viene catturato, intrappolato e recuperato,
liberando l’arteria. Nel giro di venti minuti inizi a sentire di nuovo la
sensibilità al braccio, il tuo viso si rimodella, senti di nuovo il tuo corpo.
Muovi le braccia, le sposti, apri e chiudi le mani. Passa un’infermiera e ti
chiede come va: “Meglio”, rispondi, e ti accorgi che improvvisamente hai
recuperato la capacità di parlare. Sono da poco passate le nove e mezzo della
sera. Nell’ambulatorio risuona la tua voce, che era scomparsa da più di due
ore. E’ un ottimo segnale, i medici sono soddisfatti. Portano la notizia fuori,
nella sala d’aspetto: “Siamo andati bene”, dicono.
Passa qualche minuto. Io e Valeria possiamo
entrare. Chiediamo dove sei, ci indicano una barella lì in fondo. Non ti si
vede, siamo in un lungo corridoio, ti raggiungiamo da dietro e,
improvvisamente, dalla barella si vedono salire le tue braccia, verso l’alto.
Apri e chiudi le mani, le apri e le chiudi tante volte. Riprendi possesso del
tuo corpo, poco alla volta. Arriviamo di fronte a te, sei come nuova, non c’è
nessun segno del passaggio violentissimo e brutale dell’ictus. Non ha lasciato
tracce. Ci dici che non riesci a parlare benissimo, ma in realtà parli quasi
perfettamente. E’ solo questione di ore e anche il linguaggio, che era
bloccato, riprenderà a fluire del tutto, senza alcun intoppo. Sei di nuovo tra
di noi, indenne.
Ti fanno salire al primo piano, nello
spazio protetto della Stroke Unit, dove ti terranno sotto stretta osservazione.
Sei nel posto più sicuro del mondo, guidato da un medico bravissimo, Andrea
Zini. Lì ci raggiungono anche Francesca e Giulia, e tuo papà e tua mamma. Devi
riposare, ci concedono solo un minuto a testa per salutarti. Piangi, sei
spaventata, ma sei di nuovo qui.
La tac a 24 ore di distanza darà esito
negativo. Non c’è stata nessuna lesione, non c’è nessuna conseguenza, di nessun
tipo.
Sei illesa.
Nessun segno. Nessuno.
Nessuna conseguenza. Nessuna.
E sei con noi.
Una manciata di giorni di degenza, poi
torni alla vita di tutti i giorni.
Seba, sul suo profilo facebook, il giorno
successivo scrive alcune parole, preziose, che in poche righe racchiudono il
senso di un’esperienza che non è stata solo nostra, ma di un territorio, di un
modo di fare.
E che, speriamo, possa salvare altre
vite:
“felice e orgoglioso di questa città dove in un ospedale pubblico c'è uno
dei migliori centri europei per l'emergenza neurologica che ha preso per i
capelli un'amica che se ne stava andando e ce l'ha restituita in cambio di un
sorriso e una stretta di mano”