“Bentornato
James. La temperatura dell’appartamento è di 21 gradi Celsius, il tasso di
umidità è del 42%. La vasca ad
idromassaggio è pronta, puoi scegliere tra le essenze di muschio norvegese,
ylang-ylang, melissa e lavanda. Sono arrivati cinque messaggi di posta
elettronica. La segreteria telefonica contiene una chiamata. La senti adesso o
preferisci cominciare con l’idromassaggio”?
Bond, stanco e turbato da un
pensiero fisso che si arrotolava da un paio di giorni, era stato ad ascoltare
senza grande interesse la voce fredda del computer ambientale che lo aveva
accolto in casa al suo rientro. Camminando verso lo studio aveva gettato la
giacca di lino sopra il divano e poi, con un sospiro sfocato, aveva armeggiato
intorno al colletto della camicia per sbrogliare il nodo della cravatta che per
tutto il giorno gli aveva dato una sensazione nera di strangolamento.
Il
sistema d’allarme centrale aveva letto l’iride di Bond al suo ingresso e un
rilevatore chimico diffuso nell’ambiente aveva riconosciuto il Ph della sua
pelle, identificandolo senza possibilità di errore. 007 aveva così potuto togliere dalla fondina
la Walther ppk 7.65 senza il timore che il sistema
d’allarme, rilevando un’arma non identificata nel suo appartamento, potesse bloccare porte e finestre, attivando
l’atroce “Killing me softly”, una pioggia di polimeri liquidi dal soffitto che
avrebbe liquefatto in pochi minuti un eventuale incauto intruso. Dopo un
silenzio assoluto di circa quindici secondi al centro della stanza, aveva
pronunciato con tono uniforme la sequenza di numeri 30011965.
Il Rolex
Submariner 6538, apparentemente un orologio soltanto un po’ vistoso, solo a
quel punto si era sganciato dal polso sinistro e 007 lo aveva potuto togliere.
Con delicatezza lo aveva posato sulla scrivania
e lo aveva connesso al computer attraverso una porta ad infrarossi.
Rapidamente il Submariner aveva trasmesso al computer i filmati delle persone
che erano entrate nel campo visivo di Bond durante il giorno. Il computer,
collegato alla banca dati del servizio segreto di Sua Maestà la Regina
d’Inghilterra, aveva digerito pigramente le immagini assegnando ad ogni volto i
dati anagrafici, cartella clinica aggiornata in tempo reale, cenni biografici,
cartella esattoriale, affiliazione a movimenti, partiti e associazioni e -
escludendo la morte accidentale - anche la data presunta del decesso e la
causa. Di ogni persona incrociata anche solo per caso, 007 era quindi in grado
di sapere ogni cosa. Solo un viso, tra i mille visti quel giorno, lo aveva
messo in difficoltà. E la sensazione legata a quel viso così pericolosamente
affascinante, gli aveva abbattuto l’umore sin sotto i tacchi, sprofondandolo in
un presentimento di abbandono che non lo aiutava affatto a riprendere forza.
Seduto sul letto, si era
chinato appena per sfilare le scarpe, sbuffando impercettibilmente per lo
sforzo di quel gesto familiare. In rapida sequenza erano volati sul tappeto
anche i calzini, i pantaloni e la camicia. James Bond era rimasto in mutande,
steso sul letto a braccia aperte, ad osservare con occhio bollito il lampadario
e a muovere piano le dita dei piedi, intorpidite dalla prigionia di un giorno
particolarmente lungo e spossante.
Erano tre giorni che
Bond rigirava tra le mani la foto del volto seducente di “Ice eyes”, occhi di
ghiaccio, un viso di bellezza sudamericana, delicato e da perderci la testa, ma
a cui i servizi segreti britannici non riuscivano a dare un nome, nemmeno con
l’aiuto delle sconfinate banche dati. E anche quel giorno l’esito era stato
negativo, quel viso osservato ossessivamente da giorni in fotografia non
corrispondeva a nessuna persona nota.
Si sapeva però, in contrasto con lo
charme di quella creatura angelica in grado di spezzare i cuori più granitici,
che Ice eyes veniva dall’Argentina e che era una pedina – bellissima - di un
trafficante d’armi del cartello dei colombiani che tentava di introdurre in
Gran Bretagna il materiale per la costruzione di una bomba sporca, un ordigno
nucleare fatto in casa, sufficiente a radere al suolo la capitale. Non c’erano
però elementi ufficiali di alcuni tipo a suo carico, e non si poteva procedere
all’arresto in nessun modo, ma proprio nessuno.
Abituato a resistere al fascino
di donne addestrate a sedurre con ogni mezzo, Bond sentiva che questa volta
sarebbe stato immensamente più complicato e si stupiva del fatto che nessuna
donna fosse mai riuscita a fare breccia nel suo cuore in un modo così
devastante. Con Ice eyes il muro di resistenza che di solito opponeva al
fascino femminile sarebbe potuto crollare, mandando a gambe all’aria lui, il
servizio segreto di sua Maestà e la città intera.
Appesantito da dubbi
sempre più profondi, Bond cercava sollazzo nel formicolio dei piedi che poco
alla volta ritrovavano la pace dei sensi, ma era un esercizio inutile. 007
rigirava tra le mani la foto di Ice eyes e ancora una volta si scopriva ad
ammettere che forse, per la prima volta nella sua carriera, avrebbe dovuto
chiedere di essere trasferito ad un’altra operazione, una qualunque, dove non
ci fosse il rischio di mettere sul piatto i sentimenti. Inutile nasconderlo:
l’innamoramento per quell’angelo, con una grazia assoluta nello sguardo era lì,
appena dietro l’angolo, lui sarebbe caduto in quel pozzo profondissimo e Londra
sarebbe stata rasa al suolo.
Bond divorava con gli
occhi la foto di Ice eyes. Gli occhi azzurrissimi si incastonavano su una
meravigliosa carnagione bruna ed erano così grandi che ci si poteva perdere. Il
profilo del naso scendeva regolare verso due labbra d’albicocca, schiuse
appena, che lasciavano indovinare denti candidi come perle. Gli zigomi, alti e
in un moto di riso trattenuto, sembravano appena scolpiti e degradavano morbidi
verso due fossette che nascondevano a malapena una felicità smisurata a fior di
pelle. Incorniciato in un taglio di capelli corti, neri come il buio, il viso
di Ice eyes era un vero e proprio gancio al mento, in grado di mettere K.O. al
primo sguardo.
A compromettere la resistenza di Bond contribuiva anche il
fisico di Ice eyes, un corpo meraviglioso limpidamente modellato a suon di diete,
tonico e fresco, che trasmetteva la sensazione bruciante di dune in un deserto
di sabbia. Al confronto, le donne che
Bond aveva incontrato sino a quel momento avevano il sex-appeal di un manichino
della Standa.
Il tormento di 007 era
durato fin troppo e così, dopo un’ultima altalena di pensieri, James Bond aveva
rotto gli indugi e aveva deciso che, sì, avrebbe rinunciato ad occuparsi del
caso di Ice eyes. “Mancano le condizioni di base” – si era detto, ed
evidentemente si era piaciuto, gli era sembrata un’argomentazione sufficiente
per considerare chiusa la vicenda. Decisamente sollevato, si era alzato dal
letto e aveva calzato le pantofole di spugna diretto in bagno con il catalogo
Ikea sottobraccio, pronto ad immergersi nella lettura nel corso di quella che
si annunciava come una sosta piuttosto lunga ed appagante.
Nel pieno della lettura,
sbalordito di fronte all’esiguità dei prezzi della plafoniera Lock e
dall’intramontabilità della libreria Billy, 007 era quasi sobbalzato al trillo
del cellulare, che si era connesso automaticamente al sistema in vivavoce
dell’appartamento.
“Bond”?
“Sono qui M., dimmi”.
“Abbiamo trovato Ice
eyes, soggiorna in un albergo a 30 chilometri a nord di Londra”
“Non è più affar mio,
non me la sento”.
“Ah, ah, ah. Spiritoso
come sempre, Bond. Dicevo, abbiamo individuato l’albergo, la zona è già
controllata. Tocca a te”.
“No, davvero M., sono
fuori, pensavo di chiamarti appena finito qui per dirtelo”.
“Nuove informazioni in
busta chiusa nella solita cassetta di sicurezza. 22 ore all’azione”.
M., il capo di Bond,
aveva riattaccato senza dare modo a Bond di spiegare. L’agente segreto aveva
richiuso il catalogo premurandosi di fare l’orecchio a pagina 121 e si era
infilato sotto una doccia rigenerante per affrontare quella che gli sembrava la
missione più azzardata della sua vita. Indossati abiti anonimi, 007 era uscito
di casa e aveva raggiunto rapidamente il caveau dell’ufficio postale che
custodiva un’impressionante schiera metallica di cassette postali, tra cui
quella di Mr. John McCartney, nome di copertura che 007 si era dato in onore di
una lunga amicizia con un quartetto di voci bianche di Liverpool.
Bond aveva ritirato una
busta gialla e ne aveva estratto la lettera contenuta, leggendo con angoscia
crescente le righe stampate su carta bianca. Il messaggio, a spanne, era
questo:
Ice eyes soggiornava in
un albergo nella zona dell’aeroporto Luton, a più di trenta chilometri a nord
di Londra. Nei giorni precedenti qualcuno aveva sicuramente già piazzato la
bomba sporca in una zona del centro di Londra che - per il momento - non era
ancora stata individuata. Ulteriore elemento: Ice eyes sapeva di essere sotto
controllo da qualche giorno, perciò si muoveva alla luce del sole, esattamente
come chi non ha niente da nascondere, ben consapevole che una macchina
fotografica raggranellava centinaia di fotografie in sequenza continua.
Si sapeva anche che
l’esplosione sarebbe avvenuta tra le 10,58 e le 11,01 di giovedì 22 settembre.
Era una finestra di tre minuti, al di fuori della quale la bomba si sarebbe
disattivata automaticamente. Nella programmazione dell’esplosione, infatti, i
colombiani avevano preteso la certezza di potere recuperare la bomba se
qualcosa fosse andato storto, dando al massimo un intervallo di tre minuti per
l’esplosione, trascorsi i quali l’ordigno sarebbe tornato a dormire fino a
quando un uomo di fiducia l’avrebbe recuperata e riprogrammata per una nuova
occasione.
L’innesco – e questa era
la parte più impressionante - sarebbe stato dato con un bacio. Un premolare di
Ice eyes conteneva il chip che avrebbe dato l’ok alla detonazione, ma si
sarebbe innescata solo con la sintesi chimica di due tipi di saliva, quella di
Ice eyes e quella di una seconda persona. La saliva non poteva essere
conservata o riprodotta sinteticamente, doveva garantire tutti i parametri
organici di saliva vera e propria, dalla temperatura sino al grado
basico-alcalino. In soldoni – continuava la lettera – ci doveva essere un bacio
vero e proprio.
La consapevolezza di
essere sotto la lente dei servizi segreti, aveva spinto Ice Eyes a non
utilizzare nessuna persona nota alla polizia per il bacio-miccia, né di tentare
alcun approccio con residenti della zona, anche perché per funzionare il bacio
sarebbe dovuto durare almeno 45 secondi e sarebbe stato impossibile estorcere
un bacio a qualcuno per un tempo così lungo. In qualche modo –proseguiva la
lettera - in Ice eyes c’era però l’assoluta certezza che nella finestra utile
di quei tre minuti qualcuno avrebbe sicuramente bussato alla sua porta e non
avrebbe resistito alla tentazione di un bacio, dando il via all’esplosione.
Bond, vestito da cameriere, secondo le istruzioni avrebbe dovuto bussare alla
porta di Ice eyes alle 10,57, un minuto prima che iniziasse la finestra dei tre
minuti utili, blaterando qualche cosa a proposito della stanza da risistemare o
della cena che sarebbe stata servita un po’ più tardi. Avrebbe insomma trovato
il modo di far passare quei tre minuti, salvando Londra dall’apocalisse.
007 aveva trovato la
proposta ragionevole e il mattino seguente si era recato all’albergo di Luton,
requisito nella più assoluta discrezione da parte di una decina di agenti dei
servizi segreti, che avevano sostituito il personale senza dare nell’occhio.
“Non so se potrò
resistere all’idea di un bacio”, aveva detto serio Bond agli agenti, che però –
per pura cortesia - avevano riso come ad una battuta stantìa.
Alle 10,57, con
pantaloni neri e giacca bianca con spalline dorate, 007 aveva percorso i pochi
metri sul tappeto verde del corridoio al primo piano e aveva bussato con una
certa energia alla porta della camera 149. Dall’interno si era sentito il
rumore di passi regolari, poi la porta si era aperta e Bond era quasi svenuto,
barcollando sulle scarpe lucide.
Ice eyes, che già in
foto lo aveva tramortito, su quella porta lo aveva sciolto, togliendogli ogni
residuo di ritegno e di pudore, con una sensazione di regressione repentina che
lo aveva portato all’estasi di una cotta provata durante gli anni delle scuole
superiori.
Ice eyes aveva fissato
gli occhi di Bond e aveva sgranato un sorriso inebriante che aveva tolto a 007
ogni possibilità di resistere. Il braccio di Ice eyes si era allungato sulla
spalla di Bond e la mano era scivolata piano sulla nuca, in una carezza morbida
che aveva disattivato tutti i sistemi d’allarme dell’agente 007. Le labbra di
Ice eyes si erano appoggiate piano alla guancia tenera di James Bond. Senza
fretta, quelle labbra si erano spostate sul mento, poi sul collo, fino ad
incontrare altre labbra, quelle adorabili di 007, che non aveva opposto
resistenza.
Quel bacio, il primo che
James Bond nella sua vita avesse dato a un maschio, era stato accompagnato dal
boato sordo di un’esplosione distante e a 007 era sembrato, a ben vedere, un
effetto sonoro degno della passione di quel momento.