giovedì 10 dicembre 2015
mercoledì 25 novembre 2015
Amare a pugni in faccia
Sul viale principale del paese, all'uscita della scuola, lei e lui si tengono per mano, fidanzatini da qualche mese. ma lei è silenziosa.
Diciassette anni, il groppo in gola.
Fino a quando le parole, una alla volta, escono.
Lei decide di raccontare, lasciandogli per un attimo la mano e guardandosi intorno.
E poi parla.
"Mio padre picchia mia madre.
Lo fa da quando sono nata. La picchia tutti i giorni. La prende a pugni in faccia. Non lo ha mai fermato niente. L'ha picchiata tutti i giorni anche quando era incinta di me. E poi incinta di mia sorella. Anche mentre faceva il bagno, lui entrava e la picchiava".
Si ferma per qualche secondo, poi lo guarda:
"Non sapevo se raccontartelo, perchè io non voglio che tu - adesso che hai saputo questa cosa - continui a stare con me solo perché ti faccio pena. Voglio che tu stia con me perchè mi ami, perché ci amiamo".
Tutte le volte che penso alla violenza sulle donne, penso a questo racconto che un amico mi confidò molti anni fa. E che oggi, in occasione della Giornata contro la violenza sulle donne, credo possa raccontare meglio di tante altre parole il dolore di una quotidianità senza luce.
Diciassette anni, il groppo in gola.
Fino a quando le parole, una alla volta, escono.
Lei decide di raccontare, lasciandogli per un attimo la mano e guardandosi intorno.
E poi parla.
"Mio padre picchia mia madre.
Lo fa da quando sono nata. La picchia tutti i giorni. La prende a pugni in faccia. Non lo ha mai fermato niente. L'ha picchiata tutti i giorni anche quando era incinta di me. E poi incinta di mia sorella. Anche mentre faceva il bagno, lui entrava e la picchiava".
Si ferma per qualche secondo, poi lo guarda:
"Non sapevo se raccontartelo, perchè io non voglio che tu - adesso che hai saputo questa cosa - continui a stare con me solo perché ti faccio pena. Voglio che tu stia con me perchè mi ami, perché ci amiamo".
Tutte le volte che penso alla violenza sulle donne, penso a questo racconto che un amico mi confidò molti anni fa. E che oggi, in occasione della Giornata contro la violenza sulle donne, credo possa raccontare meglio di tante altre parole il dolore di una quotidianità senza luce.
domenica 22 novembre 2015
Il dolore. L'odio. L'indignazione. L'indifferenza. Lo tsunami del web sul corpo di Enrico Liverani.
Prendete il dolore, mescolatelo con l'odio, aggiungete l'indignazione, ricoprite il tutto con l'indifferenza.
Questa volta l'onda mefitica dei social travolge la memoria del povero Enrico Liverani, il 39enne candidato del Pd a sindaco di Ravenna, morto in un incidente d'auto.
Il micidiale meccanismo dei social, malsano, fetido, si innesca quando tra i tantissimi post di cordoglio appare anche quello di Matteo Renzi, che fa letteralmente da detonatore al livore, al disprezzo di migliaia di persone. In altre parole, all'odio, che travolge ogni cosa, principalmente Renzi (a cui, nella migliore delle ipotesi viene augurata la stessa fine di Liverani), oltre che lo stesso Liverani, liquidato come uno dei tanti parassiti della politica.
L'indignazione contro tanto odio prende corpo rapidamente, alza la polvere nella bacheca di Renzi in difesa della memoria di Liverani, facendo scudo al pudore del momento, prova a mettere al riparo dagli schizzi velenosi il dolore.
Eppure, da domani subentrerà l'indifferenza, tutto questo delirio d'odio sarà meno di un ricordo nelle menti di chi vi ha partecipato, perché l'onda anomala del veleno digitale nel frattempo si sarà spostata mille volte verso mille altri obiettivi, travolgendo tutte le volte con la stessa furia momenti che avrebbero avuto bisogno di silenzi, di tempi diversi, di parole vere, di relazioni.
E sul campo rimarrà lo strazio di parenti e amici, di chi si è visto rubare il momento del dolore, servito in pasto al web.
Il web non può sostituire le relazioni umane, una lezione che impareremo quando sarà troppo tardi.
A meno che - e credo sia la sfida di questi tempi - non ricollochiamo il mondo digitale in un ruolo di mero strumento, che gli è proprio, restituendo alle persone la centralità dei rapporti. Tutto il resto è sbagliato.
Questa volta l'onda mefitica dei social travolge la memoria del povero Enrico Liverani, il 39enne candidato del Pd a sindaco di Ravenna, morto in un incidente d'auto.
Il micidiale meccanismo dei social, malsano, fetido, si innesca quando tra i tantissimi post di cordoglio appare anche quello di Matteo Renzi, che fa letteralmente da detonatore al livore, al disprezzo di migliaia di persone. In altre parole, all'odio, che travolge ogni cosa, principalmente Renzi (a cui, nella migliore delle ipotesi viene augurata la stessa fine di Liverani), oltre che lo stesso Liverani, liquidato come uno dei tanti parassiti della politica.
L'indignazione contro tanto odio prende corpo rapidamente, alza la polvere nella bacheca di Renzi in difesa della memoria di Liverani, facendo scudo al pudore del momento, prova a mettere al riparo dagli schizzi velenosi il dolore.
Eppure, da domani subentrerà l'indifferenza, tutto questo delirio d'odio sarà meno di un ricordo nelle menti di chi vi ha partecipato, perché l'onda anomala del veleno digitale nel frattempo si sarà spostata mille volte verso mille altri obiettivi, travolgendo tutte le volte con la stessa furia momenti che avrebbero avuto bisogno di silenzi, di tempi diversi, di parole vere, di relazioni.
E sul campo rimarrà lo strazio di parenti e amici, di chi si è visto rubare il momento del dolore, servito in pasto al web.
Il web non può sostituire le relazioni umane, una lezione che impareremo quando sarà troppo tardi.
A meno che - e credo sia la sfida di questi tempi - non ricollochiamo il mondo digitale in un ruolo di mero strumento, che gli è proprio, restituendo alle persone la centralità dei rapporti. Tutto il resto è sbagliato.
venerdì 13 novembre 2015
Uno su mille ce la faaaaaa. Anzi, tre su cento. #CALIFORNIA
La California che ho visto questa settimana.
I bar della Silicon Valley in cui ti puoi sedere a un tavolino a lavorare con il tuo computer senza che nessuno venga a chiederti di consumare. O, se preferite, centinaia di ragazzi nei bar della SiliconValley. Soli. Solissimi. A meno che la compagnia del proprio computer non sia considerata un'amicizia. (scegliete l'opzione che preferite)
Il guru universitario alla CuDavis che ti spiega che la ricerca è "un acceleratore per le buone idee".
Il wireless ovunque, anche sul pullman.
Sand Hill Road, una striscia d'asfalto tra Mountain View e San Francisco in cui si concentra il 95% (novantacinquepercento) del venture capitalism mondiale
La sede di Google
La cena al bar con il venture capitalist che ti spiega che "obiettivo del venture capitalist è fare il maggior volume di soldi possibile nel minor tempo possibile"
La sede di Intel
I cartellini di riconoscimento con solo i nomi di battesimo
La sede di Apple
La gente che se ne fotte completamente del look
Quantità di cibo da noi inimmaginabili, soprattutto al ristorante cinese
La sede di Facebook
Zero verdura, tranne i peperoni fritti e l'insalata alla sede di Google
Zero frutta, tranne nella mensa di Google
La sede di Hewlett-Packard
Zero pistole, ma non vuol dire.
L'odore della marijuana sulla collina da cui centinaia di persone tutte le sere di godono lo skyline di San Francisco
Idee che si trasformano in business in una settimana, perché "burocrazia" è una parola sconosciuta
La sede di eBay
Dieci ragazzi dell'Emilia-Romagna che hanno avuto un'idea, ne hanno fatto una start-up e sono volati a Cupertino e Palo Alto grazie alla Regione Emilia-Romagna, tramite Aster, per assorbire la cultura della Silicon e riportarla qui.
Haight-Asbury, la zona in cui nel 1967 nacque il movimento hippy. Ma che oggi ne è solo una parodia commerciale e disperata.
La sede di Linkedin
La "camera singola", che nei motel significa due letti matrimoniali.
Cinquanta sfumature di latte, da quello allo zabaione a quello aromatizzato alle fragola.
La Napa Valley, vigneti a perdita d'occhio, E, per una volta, questa espressione - date le distanze - ha finalmente un senso.
La sede di PayPal
Il designer italiano che Apple ha fortemente voluto, cercato, passato al vaglio di colloqui per oltre un anno e poi assunto. Scippandolo alla Ferrari (per dire dei talenti che abbiamo in casa).
Il "four way stop". Qui non esiste il diritto di precedenza,agli incroci passa chi ci è arrivato per primo. Che poi ha molto a che fare con l'essere americani, perché gli altri tre all'incrocio aspettano il proprio turno.
Arnold Schwarzenegger è stato qui.
La sede di Oracle
I venture capitalist che sanno che nel 97% dei casi il loro investimento sarà un fallimento, ma lo mettono in preventivo, perché conta provarci fino a quando andrà bene.
I venture capitalist che sanno che nel 97% dei casi il loro investimento sarà un fallimento, ma gli USA sono un paese a base protestante, non cattolica. E quindi una seconda occasione, e una terza, e una quarta, è concessa. Non è peccato fallire.
La sede di Sun Microsystem
Gli americani che non conoscono il concetto di "risparmio", perchè tutto va investito, preferibilmente in borsa.
La sede di Xerox.
Le strade di San Francisco
Stanford. Stanford!
Alcatraz, ma visto da lontano, che ti pare che con due bracciate non doveva poi essere così difficile andarsene.
La sede di Adobe
I tech-shop, laboratori in cui ti mettono a disposizione per pochi dollari l'uso di macchinari e tecnologie per i tuoi lavori ed esperimenti: dal bottone staccato, sino alla stampa in 3d, con possibilità di sperimentazioni su macchinari costosissimi che altrimenti non potresti mai permetterti.
Il divieto di fumare
La sede di Cisco Sysems
Ehi, ho detto vietato fumare. Intendo anche all'aperto, ok?
Il peggior caffè espresso della storia.
L'Università di Berkeley. Berkeley, non solo Stanford. Anche Berkeley.
Le Google Bikes per girare all'interno del Campus di Google, che è grande come l'area di Bologna racchiusa dai viali.
Taxi, si, ma vince Uber.
Il programma Google Food, per provare a far cambiar rotta agli americani all'ora di pranzo deviandoli dalla traiettoria ipercalorica.
La scuola Montessori, tutta a gestione italiana. The best.
Lombard Street, gli otto tornanti più tortuosi del mondo immortalata a più riprese da Hollywood. Peccato che ci scendano in moto impennando anche orde di tamarri urlanti.
Il San Francisco Chronicle
La Nasa.
Vietato fumare. L'ho già detto, ma è davvero vietatissimo, siete avvisati.
lunedì 9 novembre 2015
Grazie per averci portato la pioggia
Figlio di una coppia fuggita negli Usa per scampare alla mattanza nazista, ci ricorda che il pensiero più frequente dei suoi genitori, provati da anni di sacrifici, "was food".
Il cibo, per sopravvivere.
Ora che é uno dei ricercatori leader a livello planetario sui temi dell'agricoltura, del cibo e del rispetto dell'ambiente - intesi come unico ciclo virtuoso - spiega semplicemente, senza borie accademiche, quale sia il ruolo dei centri di ricerca:
"We are an accelerator of good ideas. We have to leave this place better than we found it".
Punto.
"Thank you for bringing the rain", ci dice alla fine salutandoci.
Perché oggi piove, ma in California non succedeva da quasi due anni. E senza il contributo della natura - ricerca o non ricerca - si davvero poco distanti.
martedì 3 novembre 2015
Tirarsi su le maniche (25mila volte)
Il ragazzo con la maglia di Superman si chiama Luciano Venezia. Ed è esperto di arrotolamento di maniche, olio di gomito e sudore della fronte. Insomma, uno che non ha paura di lavorare. Nè lui, nè i suoi tre soci - Diego Lanzoni, Marco Gianpaoli e Maria Vincenza Gargiulo - che poco più di un anno fa hanno unito le forze per dare vita a"Edo - Ora sai cosa mangi".
In sostanza, si tratta di una app che permette di fotografare con lo smartphone l'etichetta sugli alimenti e analizzarne i componenti, assegnando un voto da 0 a 10, che identifica quanto quell'alimento sia sano e adatto alle proprie caratteristiche fisiche (che devono essere inserite al momento dell'installazione della app).
L'alimento può essere comparato automaticamente dalla app con alimenti analoghi, per poter quindi scegliere quello più appropriato. In totale gli alimenti "schedati" dai ragazzi, su cui si possono fare le comparazioni, sono più di 25mila.
L'altro giorno, quando siamo andati a trovarli a CesenaLab - un incubatore e acceleratore d'impresa dove ci sono tanti altri gruppi di ragazzi con idee altrettanto innovative e coraggiose - ci è venuto spontaneo chiedere in che modo avessero "schedato" i 25mila prodotti, cioè se avvalendosi di un procedimento automatico o in quale altro modo.
"A mano", ha risposto Luciano.
A mano.
"Qualche volta facendo anche un po' incazzare i titolari dei negozi che ci vedevano fotografare le etichette", ha ammesso sorridendo.
"A mano" ne hanno fotografati circa 10mila, poi gli utenti in giro per l'Italia hanno iniziato a collaborare spontaneamente, fotografando le etichette sia nei negozi, sia nelle proprie dispense, inviandole ai ragazzi di Edo, che così sono arrivati - per ora - a poco più di 25mila prodotti nel loro database. E la loro app, per ora, è stata scaricata e installata circa 250mila volte.
Ed è gratuita.
In Italia di ragazzi che hanno coraggio imprenditoriale, che non temono di buttarsi, che non hanno paura della fatica, che perseguono i propri obiettivi, di gente così, è pieno.
In sostanza, si tratta di una app che permette di fotografare con lo smartphone l'etichetta sugli alimenti e analizzarne i componenti, assegnando un voto da 0 a 10, che identifica quanto quell'alimento sia sano e adatto alle proprie caratteristiche fisiche (che devono essere inserite al momento dell'installazione della app).
L'alimento può essere comparato automaticamente dalla app con alimenti analoghi, per poter quindi scegliere quello più appropriato. In totale gli alimenti "schedati" dai ragazzi, su cui si possono fare le comparazioni, sono più di 25mila.
L'altro giorno, quando siamo andati a trovarli a CesenaLab - un incubatore e acceleratore d'impresa dove ci sono tanti altri gruppi di ragazzi con idee altrettanto innovative e coraggiose - ci è venuto spontaneo chiedere in che modo avessero "schedato" i 25mila prodotti, cioè se avvalendosi di un procedimento automatico o in quale altro modo.
"A mano", ha risposto Luciano.
A mano.
"Qualche volta facendo anche un po' incazzare i titolari dei negozi che ci vedevano fotografare le etichette", ha ammesso sorridendo.
"A mano" ne hanno fotografati circa 10mila, poi gli utenti in giro per l'Italia hanno iniziato a collaborare spontaneamente, fotografando le etichette sia nei negozi, sia nelle proprie dispense, inviandole ai ragazzi di Edo, che così sono arrivati - per ora - a poco più di 25mila prodotti nel loro database. E la loro app, per ora, è stata scaricata e installata circa 250mila volte.
Ed è gratuita.
In Italia di ragazzi che hanno coraggio imprenditoriale, che non temono di buttarsi, che non hanno paura della fatica, che perseguono i propri obiettivi, di gente così, è pieno.
domenica 1 novembre 2015
Quel bacio
Questa sera, nell'angolo della piccola sala nel ristorante egiziano nel centro di Modena, giusto due tavoli distante dal nostro, lei ha appena riempito il bicchiere d'acqua.
Capelli biondi, mossi appena, a sfiorare le spalle.
Lui di fronte, barba lunga, capelli corti, neri.
Sul tavolo deve ancora arrivare quel che hanno ordinato, ma l'aria del minuscolo ristorante anticipa gli aromi del falafel, del dolce al cocco, del cous cous appena cotto, delle alici al pomodoro e spezie, del pane arabo che svetta fumante, del te alla menta.
Lei rovista senza fretta dentro la borsa, lui guarda distratto il suo smartphone.
Lei appoggia la borsa sopra una sedia vuota, la ricerca è finita.
Lui appoggia il cellulare sul tavolo, il display è spento.
Lui allunga una mano sul tavolo, a prendere quella di lei.
Le dita si intrecciano per un secondo, le mani sono unite.
Lui si allunga verso di lei, alzandosi appena dalla sedia, lei si avvicina.
Si baciano al centro del tavolo, lei chiude gli occhi. Anche lui li chiude.
Un bacio di un secondo, ma è già finito, perché arriva il cous cous.
Si staccano.
Continuano a guardarsi mentre il cameriere sistema i piatti.
Le mani si incontrano di nuovo al centro del tavolo.
Nessuna parola tra loro.
Non serve.
domenica 25 ottobre 2015
I'm so in love with you
This time we go sublime
Lovers entwine-divine divine
Love is danger, love is pleasure
Love is pure-the only treasure
I'm so in love with you
venerdì 23 ottobre 2015
"Ho tanta voglia di farmi una canna come quando ero giovane"
"Ho tanta voglia di farmi una canna come quando ero giovane, vedo i gruppi di quando ero giovane, che mi facevano compagnia a fumare, che bei tempi, che risate, che belle donne".
Oggi mi arriva questo messaggio. Me lo scrive il mio amico d'infanzia malato di sclerosi multipla, di cui ho già parlato qui. Come molti tra voi sanno, lui sta scrivendo un libro sulla sua esperienza, che oggi lo costringe a una vita molto complicata su una carrozzina. E oggi, ecco la meraviglia di questo messaggio. Senza filtri, letteralmente.
Eccolo qui, per intero:
"Mentre sto scrivendo questo libro, vorrei raccontarvi in diretta cosa sta accadendo. Da poco ho saputo che hanno legalizzato la Cannabis e so che chi ne fa uso trova giovamento. Consapevole degli effetti straordinari a detta di molti su patologie simili alla mia, non vedo l’ora di provarla. Cerco quindi di contattare il centro che mi ha in cura, ma dopo 15 giorni ancora non si fanno trovare. Dopo un mese, ancora niente. Che fare? Finalmente, dopo qualche tempo, faccio finalmente la visita dal neurologo, che demanda però la ricetta alla fisiatra la quale, a sua volta, prende tempo e, anzi, mi rimprovera perché l'ho chiamata al telefono. Dopo di che, ecco che inizia il tira e molla, perché si inventano il fatto che sia necessaria una liberatoria per prescrivermi il farmaco.
Allora io mi rompo i coglioni e vado dai Carabinieri.
Parlo col Maresciallo comandante della stazione, che riesce a calmarmi e mi convince ad aspettare e ad avere pazienza. Dice che prima o dopo mi prescriveranno il farmaco.
Meno male che lui ha pazienza, perché io ne avrei meno e gli dico che secondo me negarmi la cannabis terapeutica è un'istigazione a delinquere, perché avrei comprato la Cannabis in ogni caso, anche se non in farmacia, ma nel mercato libero. Insomma, dagli spacciatori.
Alla fine riesco a farmela prescrivere e provo a farmi una tisana, dato che la cannabis terapeutica si assume in questo modo. Gli effetti, però, non sono quelli che mi aspetto. La dose è così ridotta che non sento grandi benefici.
Forse che la tisana è troppo debole per me, o che la dose che mi hanno scritto è minima, o forse hanno paura, oppure questa è la prassi. Ne ho parlato con una dottoressa, una ex anestesista. Lei mi dice di aspettare almeno tre giorni senza prendere i farmaci che prendo di solito, in modo da eliminare dall'organismo possibili interazioni con la cannabis. Infatti, almeno uno dei farmaci che assumo è antagonista alla Cannabis.
Finalmente dopo tre giorni posso provare la tisana. Ma le attese sono superiori agli effetti.
Ho tanta voglia di farmi una canna come quando ero giovane, vedo i gruppi di quando ero giovane, che mi facevano compagnia a fumare, che bei tempi, che risate, che belle donne.
Oggi mi arriva questo messaggio. Me lo scrive il mio amico d'infanzia malato di sclerosi multipla, di cui ho già parlato qui. Come molti tra voi sanno, lui sta scrivendo un libro sulla sua esperienza, che oggi lo costringe a una vita molto complicata su una carrozzina. E oggi, ecco la meraviglia di questo messaggio. Senza filtri, letteralmente.
Eccolo qui, per intero:
"Mentre sto scrivendo questo libro, vorrei raccontarvi in diretta cosa sta accadendo. Da poco ho saputo che hanno legalizzato la Cannabis e so che chi ne fa uso trova giovamento. Consapevole degli effetti straordinari a detta di molti su patologie simili alla mia, non vedo l’ora di provarla. Cerco quindi di contattare il centro che mi ha in cura, ma dopo 15 giorni ancora non si fanno trovare. Dopo un mese, ancora niente. Che fare? Finalmente, dopo qualche tempo, faccio finalmente la visita dal neurologo, che demanda però la ricetta alla fisiatra la quale, a sua volta, prende tempo e, anzi, mi rimprovera perché l'ho chiamata al telefono. Dopo di che, ecco che inizia il tira e molla, perché si inventano il fatto che sia necessaria una liberatoria per prescrivermi il farmaco.
Allora io mi rompo i coglioni e vado dai Carabinieri.
Parlo col Maresciallo comandante della stazione, che riesce a calmarmi e mi convince ad aspettare e ad avere pazienza. Dice che prima o dopo mi prescriveranno il farmaco.
Meno male che lui ha pazienza, perché io ne avrei meno e gli dico che secondo me negarmi la cannabis terapeutica è un'istigazione a delinquere, perché avrei comprato la Cannabis in ogni caso, anche se non in farmacia, ma nel mercato libero. Insomma, dagli spacciatori.
Alla fine riesco a farmela prescrivere e provo a farmi una tisana, dato che la cannabis terapeutica si assume in questo modo. Gli effetti, però, non sono quelli che mi aspetto. La dose è così ridotta che non sento grandi benefici.
Forse che la tisana è troppo debole per me, o che la dose che mi hanno scritto è minima, o forse hanno paura, oppure questa è la prassi. Ne ho parlato con una dottoressa, una ex anestesista. Lei mi dice di aspettare almeno tre giorni senza prendere i farmaci che prendo di solito, in modo da eliminare dall'organismo possibili interazioni con la cannabis. Infatti, almeno uno dei farmaci che assumo è antagonista alla Cannabis.
Finalmente dopo tre giorni posso provare la tisana. Ma le attese sono superiori agli effetti.
Ho tanta voglia di farmi una canna come quando ero giovane, vedo i gruppi di quando ero giovane, che mi facevano compagnia a fumare, che bei tempi, che risate, che belle donne.
mercoledì 14 ottobre 2015
Il bivio
Lui lo chiama "Il bivio".
Pochi anni fa, consapevole che la sclerosi multipla lo stava rapidamente portando alla paralisi totale, si era reso conto che, se avesse voluto togliersi la vita, lo avrebbe dovuto fare subito, perché - una volta paralizzato - sarebbe stato impossibile. Insieme alla compagna, a quel bivio, ha però scelto la vita. E lo racconterà in un libro autobiografico a cui sta lavorando in queste settimane.
Mi ha chiesto una mano per scrivere il libro, eravamo a scuola insieme. Stessa età, stesse passioni, stessi amici. E io cerco di dedicare il mio tempo libero alla lettura e all'editing dei capitoli, sperando di essere all'altezza. Si, perché quando ti trovi la sera, dopo cena, a leggere le bozze del libro e ti ritrovi di fronte a riflessioni del genere, lo senti che bisogna essere davvero grandi, grandissimi, per fare le scelte nella vita. Sarà un grande libro, perché lui è una persona unica.
lunedì 12 ottobre 2015
Il sorriso della barista stanca
Vabbè, l'unico normale in questa foto è quello al centro, quel ragazzo alle nostre spalle che in una spiaggia del Madagascar tira un calcio al pallone.
Che poi dovreste vederlo quel pallone. Una specie di ammasso di stracci compattato in qualche modo. Ma basta voler giocare, il resto è bellezza pura.
Anzi, normalità. Quotidianità. Quella normalità che Stefano Totaro - il ceffo angelico sulla destra nella foto - ha raccolto in una cinquantina di scatti fotografici e proposti in "Afreeca - Una casa libera", in mostra fino al 25 ottobre a Castelfranco Emilia a Palazzo Piella in corso Martiri 204, con incasso che andrà in beneficenza a Alfeo Corassori La Vita Per Te ONG e Amici di Padre Pini Onlus.
Un racconto dell'Africa - e non solo - attraverso lo sguardo di Totaro ("Tost" per gli amici), uno sguardo totalmente libero, anarchico direi. Nessun manierismo. Solo il suo sguardo tradotto dall'obiettivo, che narra i tanti viaggi in questi ultimi vent'anni in quel continente attraverso il filtro delle persone, donne e uomini colti nella normalità delle loro vite. Mica facile, farlo bene.
Racconti veri e propri, più che foto. E una, in particolare, mi ha colpito, quella della "barista stanca".
Avete presente lo sguardo delle donne alla sera? Quello sguardo che racconta una giornata iniziata all'alba, dopo che hanno sistemato le prime cose in casa, che si sono occupate dei figli, che hanno lavorato tutto il giorno e poi, la sera, hanno pensato di nuovo a tutta la famiglia e all'universo di cose da fare, da sistemare, a cui pensare. E che a un certo punto si prendono quella pausa di trenta secondi per se stesse, spesso momenti sospesi in un pensiero che le porta chissà dove, uno sguardo carico di bellezza? Ecco, quello sguardo. Andate a vederlo. E perdetevi in quello sguardo.
Che poi dovreste vederlo quel pallone. Una specie di ammasso di stracci compattato in qualche modo. Ma basta voler giocare, il resto è bellezza pura.
Anzi, normalità. Quotidianità. Quella normalità che Stefano Totaro - il ceffo angelico sulla destra nella foto - ha raccolto in una cinquantina di scatti fotografici e proposti in "Afreeca - Una casa libera", in mostra fino al 25 ottobre a Castelfranco Emilia a Palazzo Piella in corso Martiri 204, con incasso che andrà in beneficenza a Alfeo Corassori La Vita Per Te ONG e Amici di Padre Pini Onlus.
Un racconto dell'Africa - e non solo - attraverso lo sguardo di Totaro ("Tost" per gli amici), uno sguardo totalmente libero, anarchico direi. Nessun manierismo. Solo il suo sguardo tradotto dall'obiettivo, che narra i tanti viaggi in questi ultimi vent'anni in quel continente attraverso il filtro delle persone, donne e uomini colti nella normalità delle loro vite. Mica facile, farlo bene.
Racconti veri e propri, più che foto. E una, in particolare, mi ha colpito, quella della "barista stanca".
Avete presente lo sguardo delle donne alla sera? Quello sguardo che racconta una giornata iniziata all'alba, dopo che hanno sistemato le prime cose in casa, che si sono occupate dei figli, che hanno lavorato tutto il giorno e poi, la sera, hanno pensato di nuovo a tutta la famiglia e all'universo di cose da fare, da sistemare, a cui pensare. E che a un certo punto si prendono quella pausa di trenta secondi per se stesse, spesso momenti sospesi in un pensiero che le porta chissà dove, uno sguardo carico di bellezza? Ecco, quello sguardo. Andate a vederlo. E perdetevi in quello sguardo.
sabato 10 ottobre 2015
Taxi writer
Non fatevi ingannare dalla foto. Filippo Messori, l'urlatore al centro della foto che imbraccia il basso pronto a sparare decibel sul pubblico e che sta per mangiarsi il microfono, non è un musicista. E non fatevi ingannare neanche quando lo vedete in giro per le strade di Modena alla guida del suo taxi con il gomito a bordo portiera. Lui non è un taxista.
Filippo Messori è uno scrittore.
Si, certo, suona, guida il taxi, è sposato, gli auguriamo i figli presto, insomma tutto vero.
Ma è innanzitutto uno scrittore vero. E non so se lui lo sappia.
I suoi flash di vita, narrati attraverso la lente del taxi - che tutti possiamo leggere sul suo profilo Fb -sono tra le cose migliori che leggo.
Rapide, lucide, ironiche, quasi sempre sconvenienti e politically uncorrect. Niente filtri. Ah, aria pura.
L'ultima, di pochi giorni fa, è quasi perfetta.
Eccola.
---------------------
Storie in Differita: Dopo una nottata di delirium tremens arriva un velo di stanchezza, ma c'è da fare in stazione, perché quelle cazzo di fan di Ligabue non finiscono, vorresti lo facessero, ma sembra l'Operazione Urano: niente tattica, niente strategia, solo numeri freddi e spietati.
Corri come un maiale verso la stazione ove già pregusti il carico di una manciata scarsa di cicciotte sudaticce e sgolate, dagli accenti variegati, da portare in hotel punitivi in periferia.
E invece no.
Alle 5 e un quarto ti arriva la chiamata che non ti aspetti: il visore cita asettico "voce femminile - Limidi di Soliera - per Mandrio".
.....per Mandrio?!?!?!
Accetti, ma ti fai delle domande. Poi arriva un secondo messaggio sul visore, che ti rasserena: "per Prato 08, contatta la cliente, non credo si renda conto".
Ecco.
Prendo il cel, già sicuro di farla desistere, per potermi di nuovo occupare delle mie chiattone, ma risponde una voce gentile, dall'italiano corretto, garbatissima, e decisa nonostante l'attesa ed il preventivo appositamente alto a portare a termine la transazione.
Parto.
Arrivo in un quartiere residenziale recente in quello che è un paesotto senza tempo sperduto nella bruma notturna, e mi fermo all'indirizzo. Orario preciso.
Esce la cliente.
Una ragazza nel fiore dei vent'anni, di media altezza, ben vestita. Un capello alle spalle leggermente mosso, scuro, due occhi grandi e castani dolci come la voce al telefono, un viso gentilissimo con una voglia a forma di messico sulla guancia (citazione criminale ma nel momento mi ero lasciato naufragare nel melodrammatico). Si avvicina sorridente, io sorrido, quella notoriamente è l'ora dei rottami, mentre qua siamo su un red carpet. Sorride.
Sorride, e si sposta di lato.
Scoprendo il fidanzato.
Fisico discreto, capello corto ai lati e lungo sopra raccolto in una cipolla, un pizzetto castano un po' da bohemienne; camicia bianca violentemente in difetto sui pettorali, che scopre un petto tatuato e rasato, e braccia altrettanto pittate, tutto corredato di braccialetti e ninnoli. Un pantalone con risvoltino aberrante, color rosso spento ed a coste, disperatamente lontano dai mocassini d'ordinanza.
Insomma, l'incrocio tra il melancolico Johnny Depp di Chocolat ed il mio coglione sinistro.
Clamorosamente ubriaco.
La dolce ragazza lo butta in macchina, mi sussurra l'indirizzo e fa ciao ciao con la manina farfallina. Lui rantola un rutto ed prova a chiedere se può aprire il finestrino. È una bomba ad orologeria, fa anche gli scatti alcolici. Ansima, sbuffa, si contorce a rallenty. Glie lo apro, mette fuori la testa, e livi la terrà per tutto il viaggio, e partiamo.
Rimpiango la ragazza.
Lui si avvinghia alla portiera, la strada è piena di buche, irregolarità, dossi, e curve. Od ogni cambio di peso arriva un messaggio sonoro, da captare ed interpretare.
Buca: blaurgh.
Dosso: sgnarlfghnnnnhnh.
Svolta a sinistra: puff!!! buff!!! nick nick!!!
Un corollario di onomatopee che per me significavano tutte la medesima cosa: coglione.
Seicentottanta volte coglione.
Dopo lunghissimi chilometri di nulla, ecco Mandrio.
Se volete avere idea di come si presenti Mandrio nella notte buia di un primo autunno, pensate ad campo profughi sudanese ma con una quantità di umido superiore del 694%, immerso nella padania ridens.
Arrivo alla via subito, grazie al Garmin.
Mi fermo.
Dorme.
Proprio come un coglione.
Gli metto una mano sul ginocchio coperto dalle braghe rosse, il suo calore alcolico mi fa salire la melancolia di Chocolat.
Quanto sei bello.
Quanto sei bohemienne.
Ritorno in me.
Gli do' una pacca, poi un altro paio. Rinviene.
"Ehi oltretomba, siamo arrivati. È qui?"
"Aaaahahhhmmmmm..... ssssa sis si...... sihm, sihm, hraphie.... vrendo i sholdi e via.... gu.... gu... guanto?!?!..."
"Sono tot, come d'accordo con la ragazza."
Strabuzza gli occhi pensando sia al salasso che al due di picche acidissimo che ha rimediato.
Prende il borsellino, cercando di dissimulare la sbornia appoggiandosi al pannello della porta, con gli occhi fessurati ed un pelo di bava alla bocca.
".....aaaaaaah.... eeeeeeeeh, speriamo di averli..."
Un rumore meccanico squarciò improvvisamente il silenzio di quella tarda notte, o prima mattina, secco, in un certo senso definitivo.
Il mio dito premeva leggero il tasto della chiusura centralizzata.
Eravamo chiusi dentro.
Io ed Oltretomba.
Speriamo davvero che li trovi quei soldi, Chocolat.
Quanto sei bello.
Quanto sei bohemienne.
Proprio come Johnny Depp in Chocolat.
O come il mio coglione sinistro.
venerdì 2 ottobre 2015
Il senso della vita (nella giornata dei nonni)
"A quella inaspettata aggressione ella tentava di gridare ma subito lo Stoppa le poneva una mano alla gola stringendogliela quasi a soffocarla e poscia sollevatela la sottana le introduceva il suo membro nella vulva sfogando la sua libidine"
Mio nonno, Bruno, è stato concepito così. Da uno stupro. In un giorno imprecisato di maggio, nel 1909, alle sei del mattino.
Nel giorno della festa dei nonni, ricorrenza di cui - confesso - non conoscevo l'esistenza - ho ripescato tra i documenti che conservo gelosamente gli atti del processo a carico di tale "Stoppa Eugenio fu Francesco", condannato a due anni e sei mesi per violenza ai danni di Santina Selvatico, la mia bisnonna, che la mattina - andando a lavorare nei campi di questo Stoppa per la zappatura del riso - dal suo padrone fu presa, legata "con cavezza da cavallo" fino a quando non fu soddisfatto.
Come dicono gli atti, "fu tale e tanta la vergogna e la paura che ne ebbe, specialmente di venire rimproverata e battuta dal padre, che tacque a tutti l'accaduto".
Qualche mese più tardi, quando lo stato di gravidanza fu evidente, ne parlò tra le lacrime in famiglia, e, di lì, con grande coraggio la famiglia - con il padre in prima fila a fare la battaglia per la propria figlia - denunciò lo Stoppa, che fu processato e condannato.
Da una brutalità così abissale - che a Stoppa costò 2 anni e 6 mesi di carcere, confermati in appello - nacque il nonno. Sua mamma, la mia bisnonna, morì invece di parto.
Il nonno ha avuto la sua vita, si è sposato. Sono arrivati i figli. Poi i nipoti, tra cui io.
Ed è il classico caso in cui le categorie usuali con cui si legge il mondo, non bastano a spiegare le cose. Neanche nel caso in cui la divisione manichea tra il male e il bene è così palese.
Perché io, di essere venuto al mondo, sono felicissimo. E forse - forse - la felicità di chi è arrivato dopo, è la consolazione postuma per Santina, che quella mattina sull'argine del fiume se ne andava, giovane, spensierata e con tutta la vita davanti, a lavorare nei campi di riso.
domenica 23 agosto 2015
L'inevitabile(?) nuova guerra nei Balcani
Una ventina d'anni fa, poco dopo la firma degli accordi di Dayton, sono andato a Sarajevo per raccontare per la Gazzetta di Modena (quando la dirigeva Antonio Mascolo) i primi giorni del risveglio della città, livida e piena di dolore, che provava a rialzarsi dopo più di 1000 giorni di assedio, durante i quali erano state ammazzate circa 12mila persone (per tacere di tutto il resto).
Nella delegazione di cui facevo parte c'era, solo per citarne una, anche Antonella Iaschi, poetessa grintosa e allo stesso tempo delicata, oltre che fenomenale cuoca, di cui ho ancora perfettamente chiara la maestosità della torta al cioccolato.
In quell'occasione siamo stati ospiti qualche giorno di una famiglia serba, in un palazzone senza finestre (non c'erano vetri aggiustati a Sarajevo), senza acqua, con l'elettricità razionata. Privati di tutto, ai padroni di casa non difettava certo la dignità, né il senso di ospitalità. Al contrario.
Una sera, con le poche cose che avevano in casa, hanno organizzato una cena per noi, invitando anche un vicino di casa che stava al piano di sopra.
Quello che a me di primissimo acchito era sembrato "solo" un simpatico vecchietto, cordiale e di buone maniere, nel giro di pochi minuti si era rivelato per quel che era: una personalità straordinariamente eclettica, capace di sondare con poche domande quali lingue conoscessimo e, una volta individuato il francese come terreno comune, per quanto precario, con un paio di battute mi aveva subito bonariamente preso per il culo e, effettivamente, eravamo entrati in sintonia totale. Potrei dire che ci si era subito voluto bene.
Lui era Stevan Bulajic, l'autore di Carovana alata, coautore della sceneggiatura del film "La battaglia della Neretva", scrittore, sceneggiatore e saggista molto noto in tutti i Balcani, ma anche nel resto d'Europa per quel che riguardava il filone della narrativa per ragazzi.
Con le poche parole a disposizione viste le barriere linguistiche, abbiamo però parlato di tante cose. E ricordo che il tema della convivenza tra etnie e religioni, tra serbi e croati, tra musulmani e cattolici, tra atei e agnostici, non sembrava affatto tra le principali questioni legate alla quotidianità di chi subiva l'assedio. Anzi. Le cose importanti erano altre, molto più terrene.
Tra l'altro tutti loro erano serbi, quindi in linea teorica erano tra i responsabili dell'assedio. Ma nella loro quotidianità le relazioni con chiunque erano del tutto normali. Come per la maggior parte degli assediati.
Quando ce ne siamo andati, Bulaijc ci ha lasciato un paio di suoi libri - tra cui uno con la sua dedica - qualche ricetta e un paio di trofei di caccia, cose tipo corna di capriolo, che conservo ancora.
Piccoli doni da parte di chi non aveva più niente e che, per questo, offriva le cose più personali e quotidiane.
Non sono più tornato a Sarajevo da allora, ma in questi giorni - in occasione del ventesimo anniversario del massacro di Srebrenica - ci è tornato Davide Lombardi, che mi ha raccontato di una città profondamente diversa da quella che ricordo io. Il melting pot della Sarajevo degli anni novanta ha lasciato spazio a qualcosa di più complesso e so che Davide, presto, lo racconterà in un video che attendo con curiosità. Sullo sfondo c'è la questione dell'islamizzazione dei Balcani.
Davide mi ha anticipato alcuni temi, tra cui ad esempio l'organizzazione scolastica divisa in maniera ferrea tra quella per musulmani e quella per tutti gli altri. Ma so che ci sarà molto altro. E confido nella lucidità di analisi di Davide per sapermi orientare.
Ne ho parlato anche con Luca De Pietri, che quei posti li conosce bene e ha le antenne anche su quanto accade in Albania, Kossovo,Voivodina e altri luoghi del puzzle balcanico.
Sia Davide che Luca mi dicono che nel prossimo futuro, un po' per l'intrinseca natura di detonatore che hanno i Balcani, un po' per la novità dell'Is e delal capacità di fare adepti, un po' per lo scontro tra religioni che non si è mai effettivamente dispiegato, le cose da quelle parti potrebbero tornare rapidamente a precipitare. Non tanto per questioni religiose, ma per le questioni di organizzazione sociale che da queste discendono.
Su questo, per chiudere, mi è sembrato calzare a pennello un commento di Michel Houellebecq che ho letto ieri su Repubblica, all'interno di un confronto con Alain Finkielkraut, intitolato "Difendiamo le radici di un Occidente al tramonto". Dice Houellebecq: "Non credo che si possa dissociare la questione dei costumi dalla questione religiosa. Io ho letto l'ayatollah Khomeini, ed è interessante. Sarebbe bello avere in Francia persone di un simile rigore, che sottolineino come l'Islam parli poco delle questioni metafisiche e molto più dei costumi e dell'organizzazione sociale. E' questa modestia metafisica che gli ha consentito di attraversare senza problemi le rivoluzioni scientifiche che si sono succedute, mentre il cattolicesimo andava a sbattere contro Galileo e poi contro Darwin".
Nella delegazione di cui facevo parte c'era, solo per citarne una, anche Antonella Iaschi, poetessa grintosa e allo stesso tempo delicata, oltre che fenomenale cuoca, di cui ho ancora perfettamente chiara la maestosità della torta al cioccolato.
In quell'occasione siamo stati ospiti qualche giorno di una famiglia serba, in un palazzone senza finestre (non c'erano vetri aggiustati a Sarajevo), senza acqua, con l'elettricità razionata. Privati di tutto, ai padroni di casa non difettava certo la dignità, né il senso di ospitalità. Al contrario.
Una sera, con le poche cose che avevano in casa, hanno organizzato una cena per noi, invitando anche un vicino di casa che stava al piano di sopra.
Quello che a me di primissimo acchito era sembrato "solo" un simpatico vecchietto, cordiale e di buone maniere, nel giro di pochi minuti si era rivelato per quel che era: una personalità straordinariamente eclettica, capace di sondare con poche domande quali lingue conoscessimo e, una volta individuato il francese come terreno comune, per quanto precario, con un paio di battute mi aveva subito bonariamente preso per il culo e, effettivamente, eravamo entrati in sintonia totale. Potrei dire che ci si era subito voluto bene.
Lui era Stevan Bulajic, l'autore di Carovana alata, coautore della sceneggiatura del film "La battaglia della Neretva", scrittore, sceneggiatore e saggista molto noto in tutti i Balcani, ma anche nel resto d'Europa per quel che riguardava il filone della narrativa per ragazzi.
Con le poche parole a disposizione viste le barriere linguistiche, abbiamo però parlato di tante cose. E ricordo che il tema della convivenza tra etnie e religioni, tra serbi e croati, tra musulmani e cattolici, tra atei e agnostici, non sembrava affatto tra le principali questioni legate alla quotidianità di chi subiva l'assedio. Anzi. Le cose importanti erano altre, molto più terrene.
Tra l'altro tutti loro erano serbi, quindi in linea teorica erano tra i responsabili dell'assedio. Ma nella loro quotidianità le relazioni con chiunque erano del tutto normali. Come per la maggior parte degli assediati.
Quando ce ne siamo andati, Bulaijc ci ha lasciato un paio di suoi libri - tra cui uno con la sua dedica - qualche ricetta e un paio di trofei di caccia, cose tipo corna di capriolo, che conservo ancora.
Piccoli doni da parte di chi non aveva più niente e che, per questo, offriva le cose più personali e quotidiane.
Non sono più tornato a Sarajevo da allora, ma in questi giorni - in occasione del ventesimo anniversario del massacro di Srebrenica - ci è tornato Davide Lombardi, che mi ha raccontato di una città profondamente diversa da quella che ricordo io. Il melting pot della Sarajevo degli anni novanta ha lasciato spazio a qualcosa di più complesso e so che Davide, presto, lo racconterà in un video che attendo con curiosità. Sullo sfondo c'è la questione dell'islamizzazione dei Balcani.
Davide mi ha anticipato alcuni temi, tra cui ad esempio l'organizzazione scolastica divisa in maniera ferrea tra quella per musulmani e quella per tutti gli altri. Ma so che ci sarà molto altro. E confido nella lucidità di analisi di Davide per sapermi orientare.
Ne ho parlato anche con Luca De Pietri, che quei posti li conosce bene e ha le antenne anche su quanto accade in Albania, Kossovo,Voivodina e altri luoghi del puzzle balcanico.
Sia Davide che Luca mi dicono che nel prossimo futuro, un po' per l'intrinseca natura di detonatore che hanno i Balcani, un po' per la novità dell'Is e delal capacità di fare adepti, un po' per lo scontro tra religioni che non si è mai effettivamente dispiegato, le cose da quelle parti potrebbero tornare rapidamente a precipitare. Non tanto per questioni religiose, ma per le questioni di organizzazione sociale che da queste discendono.
Su questo, per chiudere, mi è sembrato calzare a pennello un commento di Michel Houellebecq che ho letto ieri su Repubblica, all'interno di un confronto con Alain Finkielkraut, intitolato "Difendiamo le radici di un Occidente al tramonto". Dice Houellebecq: "Non credo che si possa dissociare la questione dei costumi dalla questione religiosa. Io ho letto l'ayatollah Khomeini, ed è interessante. Sarebbe bello avere in Francia persone di un simile rigore, che sottolineino come l'Islam parli poco delle questioni metafisiche e molto più dei costumi e dell'organizzazione sociale. E' questa modestia metafisica che gli ha consentito di attraversare senza problemi le rivoluzioni scientifiche che si sono succedute, mentre il cattolicesimo andava a sbattere contro Galileo e poi contro Darwin".
domenica 16 agosto 2015
Abolire il carcere
Qualche anno fa (molti anni fa, dai) ho avuto un compagno di banco molto più vecchio di me. Era stato in carcere e tentava di recuperare il tempo perduto. Era stato arrestato per spaccio ed era un tossico. Ma era riuscito a disintossicarsi dopo un periodo di comunità.
Era simpaticissimo, allegro. L'unico momento in cui perdeva il suo buonumore era quando gli facevo delle domande sul carcere. Aspirava una boccata più profonda del solito dalla Marlboro perennemente tra le labbra e guardava da qualche parte indefinita, senza rispondermi.
Solo una volta, ma aveva appena fumato una canna, si è lasciato andare dicendo semplicemente che "in carcere è meglio non andarci, succedono cose bruttissime".
Qualche mese dopo l'ho perso di vista e ho saputo che era tornato in carcere.
Questa cosa mi è tornata in mente in questi giorni leggendo "Abolire il carcere" di Luigi Manconi, un saggio dedicato alla completa inutilità della galera e alla necessità - come scrivono gli autori - di "sostituirla con misure alternative più adeguate, efficaci ed economiche, capaci di soddisfare tanto la domanda di giustizia dei cittadini nei confronti degli autori di reati più gravi (solo una piccola quota dei detenuti), quanto il diritto del condannato al pieno reinserimento sociale al termine della pena, oggi sistematicamente disatteso".
Se la si guarda dal punto di vista della recidiva, i conti sono presto fatti: il 70% di chi entra per un reato, una volta uscito lo commette di nuovo. Se lo si guarda dal punto di vista dei soldi a carico della collettività, i conti sono questi: ogni detenuto costa 125 euro al giorno, pari (dati 2013) a circa 3 miliardi di euro l'anno, letteralmente buttati al vento, dato che tre volte su quattro quegli stessi individui, una volta usciti, torneranno a delinquere. Insomma, il carcere non serve.
Esiste un'alternativa? Si, ma è lunga e faticosa, perché richiede un cambio di paradigma culturale, a partire - citando la postfazione di Zagrebelsky - dall'assicurare la dignità al carcerato, il suo diritto a un reale percorso di re-integrazione e di espiazione, che quasi mai deve passare per una gabbia, ma più spesso per una pena in cui ci si mette al servizio di quella stessa comunità colpita al cuore con il proprio delitto.
Da lì, la strada è in discesa. Per tutti.
Lettura consigliata.
Ah, dimenticavo: io di amici che hanno avuto difficoltà con l'eroina ne ho più d'uno. E sono tutte persone, a conti fatti, straordinarie.
Era simpaticissimo, allegro. L'unico momento in cui perdeva il suo buonumore era quando gli facevo delle domande sul carcere. Aspirava una boccata più profonda del solito dalla Marlboro perennemente tra le labbra e guardava da qualche parte indefinita, senza rispondermi.
Solo una volta, ma aveva appena fumato una canna, si è lasciato andare dicendo semplicemente che "in carcere è meglio non andarci, succedono cose bruttissime".
Qualche mese dopo l'ho perso di vista e ho saputo che era tornato in carcere.
Questa cosa mi è tornata in mente in questi giorni leggendo "Abolire il carcere" di Luigi Manconi, un saggio dedicato alla completa inutilità della galera e alla necessità - come scrivono gli autori - di "sostituirla con misure alternative più adeguate, efficaci ed economiche, capaci di soddisfare tanto la domanda di giustizia dei cittadini nei confronti degli autori di reati più gravi (solo una piccola quota dei detenuti), quanto il diritto del condannato al pieno reinserimento sociale al termine della pena, oggi sistematicamente disatteso".
Se la si guarda dal punto di vista della recidiva, i conti sono presto fatti: il 70% di chi entra per un reato, una volta uscito lo commette di nuovo. Se lo si guarda dal punto di vista dei soldi a carico della collettività, i conti sono questi: ogni detenuto costa 125 euro al giorno, pari (dati 2013) a circa 3 miliardi di euro l'anno, letteralmente buttati al vento, dato che tre volte su quattro quegli stessi individui, una volta usciti, torneranno a delinquere. Insomma, il carcere non serve.
Esiste un'alternativa? Si, ma è lunga e faticosa, perché richiede un cambio di paradigma culturale, a partire - citando la postfazione di Zagrebelsky - dall'assicurare la dignità al carcerato, il suo diritto a un reale percorso di re-integrazione e di espiazione, che quasi mai deve passare per una gabbia, ma più spesso per una pena in cui ci si mette al servizio di quella stessa comunità colpita al cuore con il proprio delitto.
Da lì, la strada è in discesa. Per tutti.
Lettura consigliata.
Ah, dimenticavo: io di amici che hanno avuto difficoltà con l'eroina ne ho più d'uno. E sono tutte persone, a conti fatti, straordinarie.
venerdì 7 agosto 2015
La politica (in un certo senso) divina
La prima cosa che ha detto è stata "Mi appoggio, perché altrimenti non sto in piedi". Poi ha aperto un foglio che teneva ripiegato in quattro nella tasca dei jeans. Tenendolo tra le mani, grandi come badili e forti come può avere solo chi ha lavorato la terra, ha letto un piccolo discorso di ringraziamento scritto di suo pugno.
E alla seconda riga ha pianto.
E ha ringraziato Dio per quello che prima gli aveva dato, poi tolto, e poi restituito.
Lui è il capostipite della famiglia Bonvicini, che nel 2013 una mattina di marzo, ha visto in pochi momenti la terra franare a Montecuccolo, sopra Pavullo (Mo) e portare con sé stalla, fienile, ricovero attrezzi e tutto il resto che dall'inizio del '900 si intrecciava con le loro vite.
Il lavoro di una vita che scivola via.
La vita che perde senso.
Ma poi ecco le maniche arrotolate e la determinazione.
E i soldi, ovviamente. Tanti. Quasi due milioni e mezzo di euro per ricominciare.
Metà li ha messi la Regione Emilia-Romagna grazie a fondi Europei. Una buona fetta, più di 800mila, una banca. E il resto è arrivato da altre parti.
Lui però ha ringraziato innanzitutto Dio. E anche il parroco, intervenuto pochi giorni fa alla cerimonia di inaugurazione della nuova stalla, ha chiesto a Dio "la pioggia dal cielo che bagna le zolle della terra" come elemento per dare a quel sogno la concretezza di una vita.
I vantaggi smisurati che derivano da un lavoro come il mio, sono quelli di poter incontrare tantissime persone ogni giorno nei luoghi della loro quotidianità, incontrarle dal vero, toccarle, sentire le loro parole, percepirne i sogni e le paure, le ambizioni, distinguerne chiaramente i percorsi di vita.
Da laico, non mi vergogno a dire che ho ammirato davvero la serenità con cui Bonvicini ha visto la bellezza divina, chiamiamola così, in un percorso che per me, invece, è stato un iter in cui buona politica e burocrazia hanno fatto il loro corso virtuoso, ridando sostanza al sogno di almeno tre generazioni della sua famiglia.
venerdì 31 luglio 2015
Il bacio
“Bentornato
James. La temperatura dell’appartamento è di 21 gradi Celsius, il tasso di
umidità è del 42%. La vasca ad
idromassaggio è pronta, puoi scegliere tra le essenze di muschio norvegese,
ylang-ylang, melissa e lavanda. Sono arrivati cinque messaggi di posta
elettronica. La segreteria telefonica contiene una chiamata. La senti adesso o
preferisci cominciare con l’idromassaggio”?
Bond, stanco e turbato da un
pensiero fisso che si arrotolava da un paio di giorni, era stato ad ascoltare
senza grande interesse la voce fredda del computer ambientale che lo aveva
accolto in casa al suo rientro. Camminando verso lo studio aveva gettato la
giacca di lino sopra il divano e poi, con un sospiro sfocato, aveva armeggiato
intorno al colletto della camicia per sbrogliare il nodo della cravatta che per
tutto il giorno gli aveva dato una sensazione nera di strangolamento.
Il
sistema d’allarme centrale aveva letto l’iride di Bond al suo ingresso e un
rilevatore chimico diffuso nell’ambiente aveva riconosciuto il Ph della sua
pelle, identificandolo senza possibilità di errore. 007 aveva così potuto togliere dalla fondina
la Walther ppk 7.65 senza il timore che il sistema
d’allarme, rilevando un’arma non identificata nel suo appartamento, potesse bloccare porte e finestre, attivando
l’atroce “Killing me softly”, una pioggia di polimeri liquidi dal soffitto che
avrebbe liquefatto in pochi minuti un eventuale incauto intruso. Dopo un
silenzio assoluto di circa quindici secondi al centro della stanza, aveva
pronunciato con tono uniforme la sequenza di numeri 30011965.
Il Rolex
Submariner 6538, apparentemente un orologio soltanto un po’ vistoso, solo a
quel punto si era sganciato dal polso sinistro e 007 lo aveva potuto togliere.
Con delicatezza lo aveva posato sulla scrivania
e lo aveva connesso al computer attraverso una porta ad infrarossi.
Rapidamente il Submariner aveva trasmesso al computer i filmati delle persone
che erano entrate nel campo visivo di Bond durante il giorno. Il computer,
collegato alla banca dati del servizio segreto di Sua Maestà la Regina
d’Inghilterra, aveva digerito pigramente le immagini assegnando ad ogni volto i
dati anagrafici, cartella clinica aggiornata in tempo reale, cenni biografici,
cartella esattoriale, affiliazione a movimenti, partiti e associazioni e -
escludendo la morte accidentale - anche la data presunta del decesso e la
causa. Di ogni persona incrociata anche solo per caso, 007 era quindi in grado
di sapere ogni cosa. Solo un viso, tra i mille visti quel giorno, lo aveva
messo in difficoltà. E la sensazione legata a quel viso così pericolosamente
affascinante, gli aveva abbattuto l’umore sin sotto i tacchi, sprofondandolo in
un presentimento di abbandono che non lo aiutava affatto a riprendere forza.
Seduto sul letto, si era
chinato appena per sfilare le scarpe, sbuffando impercettibilmente per lo
sforzo di quel gesto familiare. In rapida sequenza erano volati sul tappeto
anche i calzini, i pantaloni e la camicia. James Bond era rimasto in mutande,
steso sul letto a braccia aperte, ad osservare con occhio bollito il lampadario
e a muovere piano le dita dei piedi, intorpidite dalla prigionia di un giorno
particolarmente lungo e spossante.
Erano tre giorni che
Bond rigirava tra le mani la foto del volto seducente di “Ice eyes”, occhi di
ghiaccio, un viso di bellezza sudamericana, delicato e da perderci la testa, ma
a cui i servizi segreti britannici non riuscivano a dare un nome, nemmeno con
l’aiuto delle sconfinate banche dati. E anche quel giorno l’esito era stato
negativo, quel viso osservato ossessivamente da giorni in fotografia non
corrispondeva a nessuna persona nota.
Si sapeva però, in contrasto con lo
charme di quella creatura angelica in grado di spezzare i cuori più granitici,
che Ice eyes veniva dall’Argentina e che era una pedina – bellissima - di un
trafficante d’armi del cartello dei colombiani che tentava di introdurre in
Gran Bretagna il materiale per la costruzione di una bomba sporca, un ordigno
nucleare fatto in casa, sufficiente a radere al suolo la capitale. Non c’erano
però elementi ufficiali di alcuni tipo a suo carico, e non si poteva procedere
all’arresto in nessun modo, ma proprio nessuno.
Abituato a resistere al fascino
di donne addestrate a sedurre con ogni mezzo, Bond sentiva che questa volta
sarebbe stato immensamente più complicato e si stupiva del fatto che nessuna
donna fosse mai riuscita a fare breccia nel suo cuore in un modo così
devastante. Con Ice eyes il muro di resistenza che di solito opponeva al
fascino femminile sarebbe potuto crollare, mandando a gambe all’aria lui, il
servizio segreto di sua Maestà e la città intera.
Appesantito da dubbi
sempre più profondi, Bond cercava sollazzo nel formicolio dei piedi che poco
alla volta ritrovavano la pace dei sensi, ma era un esercizio inutile. 007
rigirava tra le mani la foto di Ice eyes e ancora una volta si scopriva ad
ammettere che forse, per la prima volta nella sua carriera, avrebbe dovuto
chiedere di essere trasferito ad un’altra operazione, una qualunque, dove non
ci fosse il rischio di mettere sul piatto i sentimenti. Inutile nasconderlo:
l’innamoramento per quell’angelo, con una grazia assoluta nello sguardo era lì,
appena dietro l’angolo, lui sarebbe caduto in quel pozzo profondissimo e Londra
sarebbe stata rasa al suolo.
Bond divorava con gli
occhi la foto di Ice eyes. Gli occhi azzurrissimi si incastonavano su una
meravigliosa carnagione bruna ed erano così grandi che ci si poteva perdere. Il
profilo del naso scendeva regolare verso due labbra d’albicocca, schiuse
appena, che lasciavano indovinare denti candidi come perle. Gli zigomi, alti e
in un moto di riso trattenuto, sembravano appena scolpiti e degradavano morbidi
verso due fossette che nascondevano a malapena una felicità smisurata a fior di
pelle. Incorniciato in un taglio di capelli corti, neri come il buio, il viso
di Ice eyes era un vero e proprio gancio al mento, in grado di mettere K.O. al
primo sguardo.
A compromettere la resistenza di Bond contribuiva anche il
fisico di Ice eyes, un corpo meraviglioso limpidamente modellato a suon di diete,
tonico e fresco, che trasmetteva la sensazione bruciante di dune in un deserto
di sabbia. Al confronto, le donne che
Bond aveva incontrato sino a quel momento avevano il sex-appeal di un manichino
della Standa.
Il tormento di 007 era
durato fin troppo e così, dopo un’ultima altalena di pensieri, James Bond aveva
rotto gli indugi e aveva deciso che, sì, avrebbe rinunciato ad occuparsi del
caso di Ice eyes. “Mancano le condizioni di base” – si era detto, ed
evidentemente si era piaciuto, gli era sembrata un’argomentazione sufficiente
per considerare chiusa la vicenda. Decisamente sollevato, si era alzato dal
letto e aveva calzato le pantofole di spugna diretto in bagno con il catalogo
Ikea sottobraccio, pronto ad immergersi nella lettura nel corso di quella che
si annunciava come una sosta piuttosto lunga ed appagante.
Nel pieno della lettura,
sbalordito di fronte all’esiguità dei prezzi della plafoniera Lock e
dall’intramontabilità della libreria Billy, 007 era quasi sobbalzato al trillo
del cellulare, che si era connesso automaticamente al sistema in vivavoce
dell’appartamento.
“Bond”?
“Sono qui M., dimmi”.
“Abbiamo trovato Ice
eyes, soggiorna in un albergo a 30 chilometri a nord di Londra”
“Non è più affar mio,
non me la sento”.
“Ah, ah, ah. Spiritoso
come sempre, Bond. Dicevo, abbiamo individuato l’albergo, la zona è già
controllata. Tocca a te”.
“No, davvero M., sono
fuori, pensavo di chiamarti appena finito qui per dirtelo”.
“Nuove informazioni in
busta chiusa nella solita cassetta di sicurezza. 22 ore all’azione”.
M., il capo di Bond,
aveva riattaccato senza dare modo a Bond di spiegare. L’agente segreto aveva
richiuso il catalogo premurandosi di fare l’orecchio a pagina 121 e si era
infilato sotto una doccia rigenerante per affrontare quella che gli sembrava la
missione più azzardata della sua vita. Indossati abiti anonimi, 007 era uscito
di casa e aveva raggiunto rapidamente il caveau dell’ufficio postale che
custodiva un’impressionante schiera metallica di cassette postali, tra cui
quella di Mr. John McCartney, nome di copertura che 007 si era dato in onore di
una lunga amicizia con un quartetto di voci bianche di Liverpool.
Bond aveva ritirato una
busta gialla e ne aveva estratto la lettera contenuta, leggendo con angoscia
crescente le righe stampate su carta bianca. Il messaggio, a spanne, era
questo:
Ice eyes soggiornava in
un albergo nella zona dell’aeroporto Luton, a più di trenta chilometri a nord
di Londra. Nei giorni precedenti qualcuno aveva sicuramente già piazzato la
bomba sporca in una zona del centro di Londra che - per il momento - non era
ancora stata individuata. Ulteriore elemento: Ice eyes sapeva di essere sotto
controllo da qualche giorno, perciò si muoveva alla luce del sole, esattamente
come chi non ha niente da nascondere, ben consapevole che una macchina
fotografica raggranellava centinaia di fotografie in sequenza continua.
Si sapeva anche che
l’esplosione sarebbe avvenuta tra le 10,58 e le 11,01 di giovedì 22 settembre.
Era una finestra di tre minuti, al di fuori della quale la bomba si sarebbe
disattivata automaticamente. Nella programmazione dell’esplosione, infatti, i
colombiani avevano preteso la certezza di potere recuperare la bomba se
qualcosa fosse andato storto, dando al massimo un intervallo di tre minuti per
l’esplosione, trascorsi i quali l’ordigno sarebbe tornato a dormire fino a
quando un uomo di fiducia l’avrebbe recuperata e riprogrammata per una nuova
occasione.
L’innesco – e questa era
la parte più impressionante - sarebbe stato dato con un bacio. Un premolare di
Ice eyes conteneva il chip che avrebbe dato l’ok alla detonazione, ma si
sarebbe innescata solo con la sintesi chimica di due tipi di saliva, quella di
Ice eyes e quella di una seconda persona. La saliva non poteva essere
conservata o riprodotta sinteticamente, doveva garantire tutti i parametri
organici di saliva vera e propria, dalla temperatura sino al grado
basico-alcalino. In soldoni – continuava la lettera – ci doveva essere un bacio
vero e proprio.
La consapevolezza di
essere sotto la lente dei servizi segreti, aveva spinto Ice Eyes a non
utilizzare nessuna persona nota alla polizia per il bacio-miccia, né di tentare
alcun approccio con residenti della zona, anche perché per funzionare il bacio
sarebbe dovuto durare almeno 45 secondi e sarebbe stato impossibile estorcere
un bacio a qualcuno per un tempo così lungo. In qualche modo –proseguiva la
lettera - in Ice eyes c’era però l’assoluta certezza che nella finestra utile
di quei tre minuti qualcuno avrebbe sicuramente bussato alla sua porta e non
avrebbe resistito alla tentazione di un bacio, dando il via all’esplosione.
Bond, vestito da cameriere, secondo le istruzioni avrebbe dovuto bussare alla
porta di Ice eyes alle 10,57, un minuto prima che iniziasse la finestra dei tre
minuti utili, blaterando qualche cosa a proposito della stanza da risistemare o
della cena che sarebbe stata servita un po’ più tardi. Avrebbe insomma trovato
il modo di far passare quei tre minuti, salvando Londra dall’apocalisse.
007 aveva trovato la
proposta ragionevole e il mattino seguente si era recato all’albergo di Luton,
requisito nella più assoluta discrezione da parte di una decina di agenti dei
servizi segreti, che avevano sostituito il personale senza dare nell’occhio.
“Non so se potrò
resistere all’idea di un bacio”, aveva detto serio Bond agli agenti, che però –
per pura cortesia - avevano riso come ad una battuta stantìa.
Alle 10,57, con
pantaloni neri e giacca bianca con spalline dorate, 007 aveva percorso i pochi
metri sul tappeto verde del corridoio al primo piano e aveva bussato con una
certa energia alla porta della camera 149. Dall’interno si era sentito il
rumore di passi regolari, poi la porta si era aperta e Bond era quasi svenuto,
barcollando sulle scarpe lucide.
Ice eyes, che già in
foto lo aveva tramortito, su quella porta lo aveva sciolto, togliendogli ogni
residuo di ritegno e di pudore, con una sensazione di regressione repentina che
lo aveva portato all’estasi di una cotta provata durante gli anni delle scuole
superiori.
Ice eyes aveva fissato
gli occhi di Bond e aveva sgranato un sorriso inebriante che aveva tolto a 007
ogni possibilità di resistere. Il braccio di Ice eyes si era allungato sulla
spalla di Bond e la mano era scivolata piano sulla nuca, in una carezza morbida
che aveva disattivato tutti i sistemi d’allarme dell’agente 007. Le labbra di
Ice eyes si erano appoggiate piano alla guancia tenera di James Bond. Senza
fretta, quelle labbra si erano spostate sul mento, poi sul collo, fino ad
incontrare altre labbra, quelle adorabili di 007, che non aveva opposto
resistenza.
Quel bacio, il primo che
James Bond nella sua vita avesse dato a un maschio, era stato accompagnato dal
boato sordo di un’esplosione distante e a 007 era sembrato, a ben vedere, un
effetto sonoro degno della passione di quel momento.
venerdì 10 luglio 2015
Lasciate morire il piccolo Marco
Non si sopravvive alla morte dei figli. Si aspetta solo di morire. E nel frattempo si muore dentro. Tutti i genitori sanno che è così.
Ma il piccolo Marco, 4 anni, caduto nella tromba di un ascensore nella metro di Roma, non è ancora morto. Lo trattengono qui, in un modo che annichilisce l'animo, le parole di Roberta Lombardi, la deputata del Movimento 5 Stelle che ieri, a pochi minuti dalla tragedia - una tragedia immane, inimmaginabile per la vastità del dolore - già distribuiva le colpe a destra e a manca, a Alemanno e a Marino, agli avversari politici, colpevoli del degrado di Roma, di cui l'incidente dell'ascensore sarebbe il paradigma. Lo faceva dal buco della serratura di Facebook, vomitando un giudizio gelido mentre il corpo di Marco era ancora caldo e straziato dal volo.
E in quelle parole così povere d'animo, così sature di indifferenza, che si affacciano su un abisso di cinismo nero, Marco non riesce ad andarsene. Non riesce ad andarsene accompagnato dal dolore incolmabile della mamma, del papà. No, rimane qui, trattenuto dalla merda del dibattito pubblico, che lo trasforma in fantoccio politico, sbattuto qua e là come oggetto del contendere, facendolo cadere in quella tromba dell'ascensore ancora una volta, e un'altra, e poi ancora, ancora, ancora, fino a svuotare quel corpo del diritto di un dolore privato, restituendolo alle pagine di Facebook come manichino su cui esercitare l'esercizio del consenso.
sabato 27 giugno 2015
Buongiorno amici stranieri
Questa mattina, in uno dei tanti gruppi italiani su Facebook contro gli stranieri, il post iniziale della giornata diceva: buongiorno amici italiani. Mi è sembrato un saluto fuori dalla storia, prima ancora che razzista. Lo pensavo mentre aiutavo mia moglie a rifare il letto e notavo che le lenzuola erano Made in Pakistan, ma anche mentre indossavo la giacca, rigorosamente prodotta in Cina, nonostante il brand italianissimo. Scendendo le scale di casa ho incrociato Youssouf, che abita al piano di sopra e proviene dal Ghana, che mi saluta mettendo la mano sul petto e tutte le sere mi suggerisce di mettere l'auto in garage, altrimenti qualche malintenzionato potrebbe rubarmela. L'auto, già, la mia Dacia, un marchio rumeno, prodotta in Portogallo, ma con il motore francese. E sotto casa ho salutato la bimba della coppia di moldavi che abita di fronte a noi. Il padre della bimba una volta mi ha preso per il culo in una maniera formidabile, dicendo che pochi italiani lavorerebbero nello smaltimento dell'amianto, come fa lui. Scherzava, ma mica tanto.
E penso alla birra che compero sempre ghiacciata nel negozio dei pakistani qui dietro l'angolo (aperto fino alle 23) quando torno con le pizze fumanti. Mi rilascia sempre lo scontrino. O all'orlo ai pantaloni che una giovanissima coppia di cinesi in centro ti fa nel giro di poche ore (scontrino: idem come sopra). O all'ironia spiazzante e meravigliosa degli amici di colore o albanesi delle mie figlie, che si urlano reciprocamente "negro" e "albanese" quando fingono di menarsi. O alla gelataia polacca che mi chiede se voglio qualche cono vuoto da portare a casa e poi raddoppia il numero che le ho chiesto. E al pizzaiolo del Montenegro che introduce delle varianti alla margherita quando andiamo lì a mangiare, ma anche l'oste egiziano in centro non scherza, e secondo me sa anche qualche parola in dialetto modenese.
Uno dei più simpatici è comunque un russo, che ha fatto parte dell'esercito. Ci incontriamo alla panetteria e le storie che mi racconta sono sempre più interessanti delle mie (ci vuole poco, lo so). Ci interrompe solo il suono dei cellulari, americano il suo, cinese e finlandese i miei. O Paula, un'argentina solare che tra Roma e Bologna lavora per una multinazionale, manager appassionata anche di politica. O alle migliaia di studenti stranieri che studiano nelle università dell'Emilia-Romagna, che provengono da almeno 70 nazioni diverse e che fanno un bel po' di casino nelle residenze universitarie quando hanno qualcosa d festeggiare, ma sono giovani, va bene così. O gli operai marocchini che mi hanno sistemato il terrazzo che non reggeva più l'acqua, per non parlare dell'inserviente colombiana all'ospedale di Baggiovara, così gentile con tutti i pazienti: indipendentemente dal passaporto, naturalmente.
venerdì 29 maggio 2015
Non applaudite al mio funerale
"Ho dato disposizione che il primo che applaudirà al mio funerale sarà tormentato la notte per decenni".
La battuta, folgorante, è del grandissimo Riccardo Muti. Lo ha detto oggi, a Bologna. E io credo che abbia ragione. Il contesto era quello della presentazione del Falstaff al Ravenna Festival di luglio. E il tema era quello della sacralità del silenzio necessaria in alcuni momenti, come nell'ascolto della musica. O, appunto, ai funerali. Una battuta, certo, che Muti ha regalato con lo strepitoso sense of humor che gli è proprio, che io ignoravo, non avendolo mai incontrato prima. Ma una battuta "vera".Già Gillo Dorfles, nel celebre "Horror Pleni - La (in)civiltà del rumore", invoca un mondo meno rumoroso, privo di quel rumore di fondo di chiacchiere e rituali inventati per esorcizzare tutto ciò che è più grande di noi. E che Muti, con questa battuta, sintetizza mirabilmente.
domenica 24 maggio 2015
Chiedimi chi erano i fantilventi del Piave
Solo chi è nato a Vittorio Veneto (come me) può avere un'idea di quanto l'immaginario della 1^ Guerra Mondiale abbia influito sulle scuole. Per noi, nati negli anni '60, era normale tutte le mattine essere intruppati lì nel salone e cantare a squarciagola "il Piave".
Dovevo però essere molto disinteressato, o comunque avevo un approccio decisamente meccanico e poco patriottico al canto, dato che per i primi tre anni, mentre cantavo, mi sono sempre chiesto cosa fossero mai i "PRIMI FANTILVENTI" di cui parlava la canzone.
giovedì 21 maggio 2015
I sessantottardi dell'Aula C, parodia della rivoluzione
Non credo che Ivo Germano se lo ricordi, ma io me lo ricordo bene. Un giorno, poco prima di Natale del 1989, Ivo era entrato nell'Aula C della Facoltà di scienze Politiche. Io ero dentro l'aula, insieme a un sacco di gente che studiava lì, come me e come lui, a Scienze Politiche.
Qualcuno di noi stava suonando la chitarra - la canzone era "Disperato erotico stomp" di Lucio Dalla - e cantavamo a squarciagola "non so se hai presente una puttana, ottimista e di siniiiiiiiiiistraaaaa".
Ivo, divertito dalla situazione, aveva chiesto: "Cos'è questo clima sessantottardo?".
Aveva detto proprio così: sessantottardo.
Mi ricordo che, come capita solo nelle situazioni in cui non abbiamo davvero un cazzo da fare, io gli avevo chiesto: "Perchè sessantottardo? Non si dice sessantottino?"
E lui aveva risposto che sessantottardo era più adatto, perché indicava chiaramente un tentativo maldestro di imitare un clima irripetibile. Sessantottino è un conto. Sessantottardo un'altra cosa.
E aveva ragione. Il 68 era passato da più di vent'anni.
La Pantera, quell'evento che per qualche mese ci aveva avvolti nel rassicurante gioco della rivolta, era pura parodia, era un gioco, era un'occasione identitaria, l'occasione per alcuni di noi di misurarsi con il mondo davvero adulto, con i temi importanti come i diritti.
Era pura recitazione, tra l'altro scadentissima. Una parodia, appunto.
Sessantottardo.
E quel pomeriggio, ben prima dell'occupazione - anche se era già nell'aria - eravamo proprio in quell'Aula C che già da tempo, lì in facoltà, accoglieva i più fancazzisti tra di noi, nel senso che ci si andava a studiare, certo, ma il cazzeggio imperava.
Ed era quella stessa Aula C che sarebbe stata occupata proprio in quel periodo da quei pochi - noi li conoscevamo tutti - che avevano preso l'abbaglio della contestazione dura e pura, intesa come lotta di classe e salvezza del proletariato, parole d'ordine già antiche all'epoca, ma che quei pochi irriducibili (molti di loro simpatici, questo va detto, ma fuori dal mondo) usavano ancora come sostegno teorico per occupare fuori tempo massimo quella che chiamavano un'aula "espressione del potere".
La maggior parte di noi, invece, era tornata sui libri, si era laureata e aveva intrapreso un percorso certo meno rivoluzionario e più impegnativo, tipo: andare a lavorare.
Negli anni successivi o, per meglio dire, nei decenni successivi, mi capitava ogni tanto di leggere qualcosa capitato nell'"Aula C occupata", e tutte le volte - passato lo sbigottimento di immaginare quella situazione, sospesa come una bolla temporale mentre il mondo andava avanti - trovavo conferma nell'epressione di Ivo, quel clima sessantottardo che non tramontava.
Una parodia della rivoluzione, mentre i veri bisogni erano fuori, così come fuori da quelle quattro mura c'erano i veri eroi dell'impegno civile e sociale, il volontariato, l'impegno politico, il mondo che evolve.
E l'imbrattamento delle statue, una volta cacciati dall'aula, non è affatto rivoluzione iconoclasta, è solo patetica vendetta del bambino offeso, che ora si dovrà misurare con il mondo. Ma con quello vero.
Qualcuno di noi stava suonando la chitarra - la canzone era "Disperato erotico stomp" di Lucio Dalla - e cantavamo a squarciagola "non so se hai presente una puttana, ottimista e di siniiiiiiiiiistraaaaa".
Ivo, divertito dalla situazione, aveva chiesto: "Cos'è questo clima sessantottardo?".
Aveva detto proprio così: sessantottardo.
Mi ricordo che, come capita solo nelle situazioni in cui non abbiamo davvero un cazzo da fare, io gli avevo chiesto: "Perchè sessantottardo? Non si dice sessantottino?"
E lui aveva risposto che sessantottardo era più adatto, perché indicava chiaramente un tentativo maldestro di imitare un clima irripetibile. Sessantottino è un conto. Sessantottardo un'altra cosa.
E aveva ragione. Il 68 era passato da più di vent'anni.
La Pantera, quell'evento che per qualche mese ci aveva avvolti nel rassicurante gioco della rivolta, era pura parodia, era un gioco, era un'occasione identitaria, l'occasione per alcuni di noi di misurarsi con il mondo davvero adulto, con i temi importanti come i diritti.
Era pura recitazione, tra l'altro scadentissima. Una parodia, appunto.
Sessantottardo.
E quel pomeriggio, ben prima dell'occupazione - anche se era già nell'aria - eravamo proprio in quell'Aula C che già da tempo, lì in facoltà, accoglieva i più fancazzisti tra di noi, nel senso che ci si andava a studiare, certo, ma il cazzeggio imperava.
Ed era quella stessa Aula C che sarebbe stata occupata proprio in quel periodo da quei pochi - noi li conoscevamo tutti - che avevano preso l'abbaglio della contestazione dura e pura, intesa come lotta di classe e salvezza del proletariato, parole d'ordine già antiche all'epoca, ma che quei pochi irriducibili (molti di loro simpatici, questo va detto, ma fuori dal mondo) usavano ancora come sostegno teorico per occupare fuori tempo massimo quella che chiamavano un'aula "espressione del potere".
La maggior parte di noi, invece, era tornata sui libri, si era laureata e aveva intrapreso un percorso certo meno rivoluzionario e più impegnativo, tipo: andare a lavorare.
Negli anni successivi o, per meglio dire, nei decenni successivi, mi capitava ogni tanto di leggere qualcosa capitato nell'"Aula C occupata", e tutte le volte - passato lo sbigottimento di immaginare quella situazione, sospesa come una bolla temporale mentre il mondo andava avanti - trovavo conferma nell'epressione di Ivo, quel clima sessantottardo che non tramontava.
Una parodia della rivoluzione, mentre i veri bisogni erano fuori, così come fuori da quelle quattro mura c'erano i veri eroi dell'impegno civile e sociale, il volontariato, l'impegno politico, il mondo che evolve.
E l'imbrattamento delle statue, una volta cacciati dall'aula, non è affatto rivoluzione iconoclasta, è solo patetica vendetta del bambino offeso, che ora si dovrà misurare con il mondo. Ma con quello vero.
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