giovedì 8 dicembre 2016

Da fuori sembrava così. [L'irrintracciabile laica vocazione del giornalismo]

Questo mio post è mortalmente noioso, da travet della comunicazione.
Davvero solo un tentativo di parziale illuminazione a occhio di bue su un dettaglio infinitesimale - ma importante, per me - che riguarda il tema della comunicazione. Solo per avvisarvi nel caso vogliate leggerlo, ecco.
E, seconda excusatio non petita in due righe, non è un peana a favore di Renzi.
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Matteo Renzi, chiudendo il discorso in cui ha annunciato le dimissioni dopo la vittoria del No, ha riservato le ultime parole ai giornalisti. Queste:

"Vi chiedo, nell'ora della post-verità, nell'era in cui in tanti nascondono quella che è la realtà dei fatti, di essere fedeli e degni  interpreti della missione importante che anche voi avete per il vostro Paese e direi per la vostra laica vocazione".

E' un appello intriso di sarcasmo dolente, dai toni amarissimi, diretto a una categoria - quella del giornalismo - con cui la politica, ma più nel dettaglio l'amministrazione pubblica, ha sempre avuto un rapporto tormentato, complicatissimo, tortuoso, diciamo così.
Sullo sfondo, o piuttosto in primo piano, il tema della laicità del giornalismo. Una laicità declinata qui al piano professionale, ma che possiamo provare a proiettare al Paese intero.

Nelle parole di Renzi c'è, evidentemente, l'idea che una quota della narrazione dell'azione di governo - da parte dei media - non sia stata aderente alla realtà delle cose. Con il conseguente tradimento di quella "laica vocazione" che dovrebbe costituire il presupposto della professione.

Prendo ad esempio Renzi solo perché è stato lui a mettere sul tavolo questi elementi. Ma il discorso è del tutto indipendente da lui e da chiunque altro. Ha a che vedere con il giornalismo, la comunicazione, la politica. Fine.

[mozione d'ordine (si dice così mi pare): evitate già a questo punto repliche del tipo "si ma il governo racconta balle", "senti chi parla, proprio la politica che dovrebbe dare l'esempio" ecc ecc. Vorrei veramente mettere a fuoco solo questo aspetto. Poi del resto ne parleremo. Fine della mozione d'ordine]

Sulla natura dello storytelling renziano si è detto molto, ma qui proverei a tenere l'attenzione su un piano più pratico, davvero banalmente pratico credetemi,  lontano da dietrologie et similia. Banalmente sdraiato sulla quotidianità di chi si occupa di giornalismo e comunicazione pubblica. Proprio lì dove nascono le cose, dove i fatti che diventeranno grandi hanno la dimensione iniziale del primo passo, di una cosa ancora amorfa.

Quel che ho visto in 25 anni di lavoro, avendo avuto la possibilità di esperienze professionali su entrambi i fronti - sia nelle redazioni dei giornali, sia negli uffici stampa pubblici, sino all'attuale incarico - è che sono due mondi che usano codici diversi e che proprio - anche in buonafede - non riescono a comunicare.
Anche in buonafede, si. Non spesso, ad onor del vero.
Un aspetto sempre più evidente, quello dell'incomunicabilità,  da quando anche i muri hanno capito che, nel comunicare, conta l'empatia, mica l'ideologia (per fortuna, in un certo senso. Ma con un corollario di conseguenze che, ciao).
E quindi, obbligo di empatia. Con tutti i rischi di sciatteria e "disinformazione per approssimazione e superficialità" annessi.

In questa incomunicabilità, però, ci perdiamo tutti (tranne il populismo che si nutre di informazioni approssimative e ne esce ogni volta sazio, rifocillato).

Sento già il fragore dei vaffa che mi arriveranno, ma la vorrei spiegare con un esempio quasi fisico di ciò che succede quando si lavora in un ente pubblico e ci si occupa di comunicazione, nel momento in cui si costruisce la comunicazione per raccontare ai cittadini un risultato.

La prima scelta è "cosa" comunicare. Su cento cose fatte, si riesce a dare notizia di un decimo. E forse abbondo nella stima.

L'ente pubblico - dal governo centrale sino all'ultima delle commissioni consiliari di un comune - decide di dare notizia di un risultato: un finanziamento, un bando, una legge, un investimento, un progetto. In altri termini, intende dare conto ai cittadini di come risponde al loro mandato. In ultima istanza, di come si spendono i loro soldi. I nostri soldi. I soldi di tutti noi.

Anche il più piccolo dei provvedimenti spesso ha un grado di complessità non proponibile nel circuito dei media generalisti, che devono rispondere ai rispettivi target. Alle loro proprietà, potremmo dire, per dire già qualcosa a proposito della laicità del mestiere.

Nel comunicare ogni risultato, quindi, si sceglie inevitabilmente di ridurne giocoforza la complessità, confezionando la comunicazione già ad uso e consumo dei media con pochi elementi facilmente divulgabili, mantenendo nella narrazione la sostanza del provvedimento.
A questo punto del percorso, tocca ai media, sta a loro.
I media digeriscono queste informazioni passandole tra i filtri dei rispettivi criteri redazionali, lunghezze dei servizi tv, titoli sui giornali ecc, oltre che (o soprattutto per)  i rispettivi riferimenti politici e culturali, arrivando quindi al lettore finale con contenuti che in questa filiera perdono quasi completamente la sostanza originale.
E' una filiera asfissiata progressivamente dall'assenza in campo della laicità dei media, spazzata via dal combinato disposto della ricerca dell'empatia (quanti danni, quanti) e della faticosa corrispondenza ai desiderata dell'editore, portando all'esito di un proliferare di pulpiti che manco nell'enciclopedia delle religioni.
Eppure la laicità sarebbe dietro l'angolo. E non si dovrebbe per forza risolvere nella neutralità, no.
Sarebbe sufficiente - anzi, benvenuta - una dichiarazione di appartenenza. Manifesta. Che si fa pulpito, ma almeno lo dice.
Proprio così, basterebbe una laicità intesa come trasparenza di appartenenza. Una contraddizione in termini, lo so. Un'antinomia paradossale. Ma sempre meglio di niente.
Così, in un Paese che laico non potrà mai essere, almeno un terreno - quello del giornalismo - meriterebbe maggiore cura, diciamo così, evitando la trita pièce di una neutralità od oggettività mai tali.

In questa filiera torbida, la narrazione super partes affoga.

Ci perdono tutti, proprio tutti, perché in una narrazione strumentale (sia nel bene che nel male, sia chiaro, distorcendo la realtà ad uso e consumo sia di supporter che di haters) salta l'appuntamento finale, e cioè la narrazione "oggettiva" di come l'ente pubblico spende i nostri soldi, riservando ai cittadini una verità parziale, spesso distorta.
E considerando che proprio a proposito dell'informazione, Papa Francesco spiega che "la gente ha la tendenza alla malattia della coprofagia" (in sostanza a mangiare la merda, per dirla come va detta), quanto più basso è il livello dell'informazione, tanta più gente avrà la tentazione di sedersi a tavola per un lauto pasto.

Non parlo di propaganda.
Qui non si intende che il giornalismo debba essere piegato alla politica e ai capricci degli amministratori pubblici. Di Minculpop ce n'è stato già uno, e i danni si sentono ancora a quasi un secolo di distanza.
Basterebbe solo la chiarezza delle squadre in campo.

L'anno scorso ho incontrato un collega che per 30 anni ha lavorato in uno dei principali network televisivi del Paese. Personaggio noto insomma. Che poi ha accettato un incarico nell'ambito della comunicazione pubblica. Come direbbero i più cinici, "è passato dall'altra parte".

Quando ci siamo incontrati, gli ho detto scherzando: "Ti sei accorto che per 30 anni non avevi capito un cazzo? Che non ci sono dietrologie, complotti e tutte le altre cazzate che hai detto in tv per tre decenni"?
Non ha neanche tentato di ridere, mi ha guardato con uno sguardo un po' perso e una mano appoggiata alla scrivania e mi ha detto: "Non ne avevo idea. Eppure da fuori sembrava così".

Appunto.
Da fuori.
Sembrava.
La laica vocazione.











2 commenti:

  1. Parole dal sapore davvero amaro, Stefano...ma ancora ti ringrazio perché adesso so qualcosa in più.
    Laura

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  2. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

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