martedì 30 dicembre 2014

Calano i lettori, prevale il digitale: si arrende anche la Libreria delle Moline

A Bologna chiude la Libreria delle Moline, uno dei luoghi simbolo della città universitaria, meta per generazioni di studenti interessati a tutto ciò che non era "mainstream".
La serranda abbassata della libreria, unita a quelle di tante altre librerie, narra meglio di ogni altra immagine la crisi irreversibile di una filiera editoriale, quella composta da autore/editore/distributore/libraio.
Prevale la disintermediazione, trionfa il digitale, ma in ogni caso si legge sempre meno.
Qui la storia completa: goo.gl/JYqrc5 

lunedì 29 dicembre 2014

Honoré de Balzac e i clochard di Angoulême



Honoré de Balzac, nel meraviglioso "Le illusioni perdute", già nella prima metà dell'800 descriveva Angoulême con queste parole: "La maggior parte delle case di Angoulême alta sono abitate o da famiglie nobili o da antiche famiglie borghesi che vivono di rendita, e formano una specie di tribù autoctona in cui gli estranei non sono mai ammessi". Non c'è quindi molto da stupirsi di ciò che succede oggi in quella cittadina, dove il sindaco, Xavier Bonnefont, ha fatto installare le reti per evitare che i barboni «sonnecchino ubriachi» e scatenino risse. Qui la storia completa.

mercoledì 3 dicembre 2014

60 anni di giornalismo modenese nel libro di Giorgio Boschini

La rivalità tra Gazzetta di Modena e il Resto del Carlino, la parabola dell'Unità, le televisioni private e le radio della provincia. E poi le visite del Papa, l'epopea di Enzo Ferrari, l'avvento di internet e i moti del '68, passando per il caso Di Bella, l'assassinio di Marco Biagi, il primo modenese sullo Shuttle, la rapina della mala del Brenta alla Pinacoteca Estense e centinaia di altri fatti di cronaca. Questo, e molto altro, è "Tutti i particolari in cronaca - Percorso storico sul giornalismo modenese dal 1945 al 2005" (Il Bulino edizioni d'arte), il libro di Giorgio Boschini, che avrò il piacere di presentare sabato 6 dicembre alle 16,50 alla Sala Europa del Comune di Modena, in piazza Grande.
Boschini, che un'intera generazione di giornalisti modenesi associa principalmente alla sua attività di corrispondente RAI, è stato anche collaboratore de "Il Giorno" e responsabile della redazione modenese de "L'Avvenire d'Italia".
Quello di Boschini è un viaggio dettagliatissimo della nostra storia, che - attraverso la lente privilegiata delle redazioni dei giornali - narra i cambiamenti di una provincia e, di riflesso, di un'intera società
Nessun tratto nostalgico nella narrazione, al contrario, Boschini mantiene lo sguardo lucido per ricordare con la dovizia del cronista una quantità immensa di episodi che ha potuto catalogare grazie agli archivi delle redazioni e all'Archivio di Stato.
Ecco quindi la prima tipografia semiclandestina di Don Zeno Saltini in una canonica di Carpi, in cui veniva stampato il giornale della parrocchia, per passare poi alla narrazione dei crimini del dopoguerra. Appare poi Guglielmo Zucconi - che dalle colonne della Gazzetta di Modena irritava non poco la proprietà editoriale - per arrivare all''eccidio delle fonderie e al passaggio generazionale degli operai che - poco alla volta - imboccano la via dell'imprenditorialità diffusa.
Da Enzo Ferrari (e il suo rapporto con i figli) alle prime rivoluzioni nelle redazioni, dalle sentenze sul divorzio al terremoto del '96, da Monsignor Santo Quadri e Mario Del Monte a braccetto in corso Duomo alla scoperta del figlio di Palmiro Togliatti ricoverato in una clinica (lo scoop fu di Antonio Mascolo e Sebastiano Colombini), passando per Comix, Modena Mondo, La Voce, Nostro Tempo, gli uffici stampa degli enti pubblici e delle associazioni di categoria e tante altre testate, 245 pagine che raccontano un mondo - come suggerisce il titolo - ricco (ricchissimo) di particolari.

mercoledì 5 novembre 2014

Giulio, l'infermiere idealista



Dopo la pubblicazione del mio post sull'ictus di mia moglie, ho ricevuto una quantità inimmaginabile di messaggi. Conto di rispondere a tutti, ma uno lo pubblico subito qui, perché - nel sottolineare la professionalità dei medici - ho inevitabilmente tralasciato molte categorie nell'ambito sanitario che hanno ruoli altrettanto fondamentali. Il caso in questione, è quello della dignità del lavoro degli infermieri. Mi ha colpito moltissimo e lo voglio condividere con voi.


Buongiorno Stefano, mi chiamo Giulio e lavoro presso una delle terapie intensive dell’ospedale civile di Baggiovara, ospedale in cui la bellissima storia che ha saputo raccontarci e che ha commosso migliaia di persone ha preso forma. L’ho letta quella storia, tutta d’un fiato, senza perdermi una singola sillaba, ripercorrendo con la mente luoghi e passaggi che conosco alla perfezione e che sua moglie ha dovuto affrontare nel momento più buio, fino a tornare a vedere la luce e poter riabbracciare i suoi cari. E’ una storia che ho sentito anche un po’mia, come sento mie tutte le storie dei pazienti che vedo passare quotidianamente davanti ai miei occhi, del loro dolore, dello sconvolgimento che un attimo, un solo attimo, può portare nella loro vita e in quella dei loro nuclei famigliari, proprio come è successo a voi. Decine, centinaia, migliaia di pazienti che tutti i giorni in cui usciamo di casa per andare a timbrare il cartellino accompagnamo in un difficile percorso verso un ritorno alla normalità, o ad una vita dignitosa imparando a convivere con malattie che lasciano segni profondi nel corpo e nell’anima, ma anche verso la morte, verso quel grande buio che rappresenta ancora il mistero più grande e per questo più spaventoso. Pazienti, ma ancor prima persone, per cui passiamo le notti lontano da casa, per cui non ci sono festività che contino, per cui non è detto che il giorno di Natale siamo a scartare i regali accanto alla nostra famiglia, e per i quali a volte il capodanno si trasforma in un fugace brindisi a(na)lcolico tra una terapia e l’altra: perché queste persone, nel momento più difficile, hanno il diritto di avere un’assistenza adeguata e preparata, in qualsiasi momento questo avvenga. Giunto a questo punto, giustamente, lei si starà chiedendo quale sia il motivo che mi ha spinto a scriverle: bene, questo motivo è che io sono un Infermiere. Un Infermiere. Lo dico con il grande orgoglio di appartenere a questa categoria un po’ bistrattata e spesso dimenticata: nell’immaginario collettivo, ancora una volta confermato dal suo racconto, è il medico-eroe che salva le vite, e spesso ci si dimentica di quei tanti che formano il microcosmo di un ospedale e che occupano un ruolo indispensabile nel processo di cura. Probabilmente lei (non gliene faccio una colpa, so bene come è la percezione da parte di chi è esterno a questo mondo) non è a conoscenza del fatto che a Modena possiamo vantare di un efficientissimo sistema di Emergenza-Urgenza 118 che ruota attorno alla figura dell’infermiere, addestrato sul territorio a compiere manovre avanzate e a somministrare farmaci salvavita in totale autonomia con l’ausilio di protocolli operativi, e che la stessa procedura per la gestione degli Stroke che ha permesso di gestire e soccorrere così rapidamente sua moglie nel migliore dei modi è stata scritta a 8 mani, 4 delle quali erano di infermieri. E probabilmente non è al corrente che in pronto soccorso, quella bolgia in cui vengono visitate e trattate decine di persone ogni giorno, sono gli infermieri a decidere, in un batter d’occhio e con l’ausilio della sola esperienza e di una breve anamnesi, la gravità dei pazienti che vi accedono e a stabilire quindi le priorità di trattamento. Sempre gli infermieri che nei reparti si trovano a somministrare terapie chilometriche di ancor più chilometriche corsie, continuamente interrotti da chi chiama per una padella, per aprirgli la bottiglietta dell’acqua, per sapere che strada fare per raggiungere questo e quel reparto, per sapere dove è la cartella di quel tal letto, per ricevere la lista operatoria del giorno successivo, secondo un obsoleto modello che vede la nostra professione come i factotum dell’ospedale, e non ci riconosce dei professionisti laureati ed abilitati con compiti (sulla carta) specifici. E ancora, sono gli infermieri che nelle terapie intensive gestiscono farmaci che si misurano in microgrammi con sofisticate pompe infusionali, utilizzano ventilatori polmonari e macchine per la dialisi, hanno dimestichezza con l’ecografo, e tante altre cose che non sto qua ad elencare perché questo breve scritto non vuole e non deve essere uno strumento di auto-incensamento della categoria. No, nessun auto-incensamento, nessuna presunzione, nessuna mania di grandezza in tutto questo. Ma ora si fermi un attimo, un solo secondo, e provi a pensare; ha ringraziato e portato agli onori della cronaca il competentissimo dottor Zini, e la bravura e l’intuizione con cui il dottor Vallone ha saputo districarsi in una situazione complessa dando a sua moglie la seconda chance che meritava di avere. Ma ricorda il nome di almeno un infermiere, uno solo, di tutti quelli che si sono avvicendati al capezzale della sua consorte? A partire da quelle persone scese dall’ambulanza (si, glielo posso dire con certezza: non erano medici, eppure hanno riconosciuto e trattato al meglio il problema indirizzandola nel posto giusto e con i tempi giusti, come ogni linea guida dice di fare), passando all’equipe del pronto soccorso per arrivare al personale che compone il reparto di Neurologia/Stroke Unit del nostro nosocomio. Probabilmente no, e come lei la maggior parte dei pazienti e dei parenti che transitano per i nostri corridoi: non per questo noi smettiamo di fare il nostro lavoro, o lo facciamo con meno passione. Non ci interessa essere i signor-NESSUNO, quelli che lavorano dietro le quinte e che nessuno ricorda. Ci basterebbe che la nostra professionalità venisse riconosciuta, che non ci proponessero solo trattative al ribasso, che non ci impedissero anche le più piccole possibilità di carriera, che il nostro lavoro non venisse continuamente svilito e denigrato. Non vivo positivamente quando sento parlare della nostra come “missione”: il nostro è un lavoro, per cui studiamo anni in università, facciamo master e lauree specialistiche, corsi abilitanti e concorsi. Tutto questo non può essere solamente una “missione”, perchè proprio finchè se ne parlerà in questi termini la nostra professione non farà mai davvero un passo in avanti nell’immaginario collettivo. Se ho scelto di scriverle non lo faccio per una pubblicità personale, non mi interessa. La sua storia è finita giustamente su Repubblica, la mia lettera la mando solamente a lei, con il desiderio di farle conoscere una piccola parte del nostro grande, enorme mondo. Con il desiderio che un giorno gli stessi infermieri che oggi manifestavano in gran numero a Roma contro i continui tagli che non ci danno più gli strumenti materiali con cui lavorare in sicurezza (ma NESSUN telegiornale ne ha parlato …) un giorno passano essere riconosciuti come parte integrante del processo e come professionisti intellettuali. E chissà che proprio nell’opinione pubblica rappresentata da voi giornalisti qualcosa, presto o tardi, non inizi a muoversi. Ancora una volta esprimendole le più grandi felicitazioni per la sorte di sua moglie, e augurandovi di potervi godere nel migliore dei modi questa seconda possibilità che la vita vi ha dato, le porgo i più cordiali saluti. Un infermiere idealista Giulio Palazzi

sabato 1 novembre 2014

Mia moglie illesa dopo un ictus. Modena, quando la sanità funziona davvero.


“Non sto tanto bene.  Ci vedo male, un po’ offuscato ”.

Mi dici così, mentre mi baci e sposti indietro i capelli in un gesto che ti ho vista fare tante volte.  Sei bellissima Ilaria, lo penso tutte le volte che ti vedo, anche se siamo sposati da 17 anni e ci conosciamo dai tempi dell’università.

Sono le cinque e mezzo del pomeriggio e a Bologna è buio. D’altro canto è il 14 gennaio, siamo nel cuore dell’inverno, le giornate sono ancora cortissime.  L’aria è secca, ma non c’è il freddo che ti aspetteresti.
Mi avevi  telefonato da Modena un paio d’ore prima: “Ho il pomeriggio libero, quasi quasi prendo il treno, vengo a Bologna, guardo qualche vetrina e poi torniamo insieme a Modena quando finisci di lavorare. Ok?”.
“Ok”, ti avevo risposto. “Alle cinque devo intervistare uno. Finisco di fare l’intervista e poi ci vediamo in via San Carlo”.

Alle cinque e mezzo ci vediamo sotto il portico, proprio di fronte al fornaio. 
“Non sto tanto bene.  Ci vedo male, un po’ offuscato ”, mi dici appena mi vedi.
“Sarai un po’ stanca, sarà un calo di pressione”.  Boh, che ne so. 
“Ma si, si. E poi ho mangiato poco a pranzo”, dici tra te e te, a bassa voce. E cammini di fianco a me, guardando per terra. 

“Vuoi che facciamo qualche ripresa”?, ti chiedo. “Ho la telecamera nello zainetto, se vuoi ci mettiamo pochi minuti”.
Lavoro da un anno a un documentario su via San Carlo. Questa cosa del documentario più di una volta ti ha fatta incazzare: “Già sei poco a casa, in più ti fermi anche a fare ‘sta roba”, mi hai detto un paio di volte.  
So che non c’entra via San Carlo, è solo che sono poco a casa. Pochissimo. E questa cosa ti pesa, devi pensare a tutto tu. Alla casa. Alle ragazze, Francesca, Giulia, le nostre meravigliose bimbe,  anche se sono già grandi, nell’imbuto dell’adolescenza. Ma un giorno mi hai spiazzato:
“Mi piacerebbe esserci”. 
“Dove”?
“Nel documentario. Mi riprendi mentre cammino sotto i portici”, mi hai detto qualche settimana fa.

E adesso ci siamo, in via San Carlo. Me lo chiedi di nuovo: “Mi riprendi mentre cammino?”.
“Si, tu fai finta che io non ci sia. Cammina senza guardare l’obiettivo della telecamera, ignorala. Guarda avanti, come se io non ci fossi e mi passi di fianco, ok?”.

Fai qualche passo e ti allontani, poi ti giri. Sei sotto le volte del portico, male illuminato.
“Ok, adesso cammina verso di me”, ti dico.
Fai qualche passo, mi passi di fianco e poi ti fermi.
“Facciamo un’altra ripresa per sicurezza”, ti dico.

Prima di spegnere la telecamera guardiamo come sono venute le immagini: “Non mi si vede neanche in faccia”, dici. E in effetti è così, luce alle spalle, il tuo viso rimane nell’ombra.
“Vuoi che rifacciamo?", ti chiedo.
“No, dai, andiamo a casa. Ho questo fastidio che non passa, andiamo a casa, facciamo un’altra volta”.

Ci prendiamo per mano, ti racconto piccole cose insignificanti mentre ci avviamo verso la stazione, ma vedo che sei da qualche altra parte con la testa. “E se ho qualcosa di grave”?, dici improvvisamente.
“Ma dai, figurati”.
“C’è questa cosa strana, non ci vedo bene, ma in un modo che non so spiegarti. Vedo come delle macchie. E poi nel mezzo c’è qualcosa, vedo un po’ male nel mezzo. Vedo tutto un po’ sfocato. E ho mal di testa”.
“Ma si, dai, sarai stanca. Andiamo a casa e stasera ci prendiamo una pizza, puro polleggio, senza cucinare”.
“Va bene, riusciamo a prendere il treno delle 6 e 52?”.
“Se ci diamo una mossa prendiamo quello prima, quello delle 6 e 28”, ti dico.

Acceleriamo un po’ il passo, ma l’ansia non molla la presa, te lo leggo in faccia. ”Senti Ila , chiama Valeria e le racconti cosa ti sta succedendo, così almeno non rimani con questo pensiero”. Valeria è tua sorella, è un medico, lavora in un Pronto Soccorso. E’ brava, e naturalmente tu ti fidi doppiamente di lei, dato che è tua sorella.

La chiami mentre siamo quasi in vista della stazione, ascolto quel che le dici mentre camminiamo, ti sento ridere, sei più tranquilla.

“Mi ha detto di andare al pronto soccorso se questa cosa non smette entro mezz’ora”.
“Beh, fermiamoci qui a Bologna”, propongo.
“Ma no, andiamo a Modena, mi passerà”.
“Sei sicura? Non vuoi che ci fermiamo almeno in farmacia per chiedere qualcosa?”.
“No, dai, andiamo, sono stanca”.

Sul piazzale della stazione di Bologna incontriamo anche Patrizia, una collega di lavoro. Un saluto veloce, due chiacchiere al volo, poi noi ci dirigiamo al piazzale Ovest. 

E lì mi dici: “E se ho un ictus”?
“Un ictus? Beh, prima devi firmare i documenti per l’eredità, così finalmente posso comperarmi la villa con la piscina. Poi fatti pure venire l’ictus”. 

Ci facciamo due risate,  in 17 anni di matrimonio il mio umorismo nero ha fatto breccia, in qualche caso è stato l’unico sistema per sciogliere i nodi delle tensioni. Ma poi torni seria: “Se prima o poi dovesse succedermi  qualcosa, stacca tutti i fili, io non voglio rimanere un vegetale”.
“Vai tranquilla Ila, passo io e stacco tutto”.

Saliamo sul treno, io sfoglio il giornale e tu mandi un messaggio alle tue amiche per dire che quella sera non andrai in palestra. Poi infili gli occhiali da vista e il tuo viso si illumina: “Con gli occhiali ci vedo molto meglio, è tutto più nitido”. 
“Ma si, vedrai, è solo questione di stanchezza. E poi stai invecchiando, stai diventando una talpa, come me, che senza occhiali non vado da nessuna parte”. 

La Repubblica, il martedì, ha un inserto dedicato alla salute che io di solito cestino senza neanche leggerne una riga, perché è pieno di tutte le possibili sfighe che ti possono capitare e io, da buon ipocondriaco, preferisco altre letture. Lo butto sempre  via.  Quel giorno, però,  non lo faccio, me ne dimentico, perciò mi imbatto senza volerlo nella pagina di apertura del fascicolo, dove si parla della possibilità di ridare la vista – con un occhio elettronico – a chi l’ha persa o a chi non l’ha mai avuta.
Giro il giornale verso di te: “Anche se ci vedi male sei a posto, visto? Mal che vada ti mettiamo un occhio bionico”. Ridi, mi mandi a cagare.

Mentre il treno supera Castelfranco rispondi al telefono, è Giulia che ti saluta. Chiudi la telefonata, poi suona il mio cellulare: è sempre Giulia: “Ciao papi, tutto bene”? 
“Si, certo, tu tutto bene? Ma non hai appena chiamato la mamma?”
“Si, come fai a saperlo”?
“Sono qui con lei sul treno, tra poco arriviamo a casa”.
“Papi, io però vado in palestra,  mi vieni a prendere alle otto e mezzo”?
“Si, stasera mangiamo la pizza”.
“Wow!”
“Ci vediamo dopo, ciao”.

Chiudo la telefonata mentre il treno entra nella stazione di Modena e il mio cellulare squilla di nuovo. Questa volta è Andrea, mio fratello. 

Scendiamo dal treno, tu mi precedi sul marciapiedi mentre io chiacchiero al telefono. Ti vedo un po’ indecisa prima di imboccare il sottopassaggio, come se non sapessi da che parte andare. 

E’ un segnale, ma non lo colgo.

Ti indico con un dito  le scale mentre continuo a parlare al cellulare. 
Scendiamo nel sottopassaggio, poi risaliamo e usciamo sul piazzale. 

Siamo a Modena, sono quasi le sette di sera. Non lo sappiamo, ma stanno per iniziare i momenti più terrificanti della nostra vita.

Mentre camminiamo sotto al portico che conduce alla rotatoria di piazzale Natale Bruni, ti volti qualche volta indietro. Cammini qualche passo avanti a me. C’è più freddo rispetto a Bologna e tu, per ripararti, ti stringi in te stessa,  con le mani che in un abbraccio vanno a coprire le spalle. E, più di una volta, ti giri indietro.  Io non ci faccio caso, ma quel semplice movimento, quel guardare indietro è invece un segno inequivocabile di quello che sta per accadere. Lo avremmo capito solo nei giorni successivi, rimettendo in ordine i ricordi di quei momenti.

Attraversiamo le strisce pedonali ai piedi del cavalcavia. Dobbiamo andare verso sinistra, ma tu tiri dritto, sei una decina di metri più avanti di me. Io, che sono ancora al telefono, ti chiamo: “Ila”. Tu non ti giri. Ti chiamo con più insistenza. “Ilaa, Ilaaa”. Niente, non ti giri. 
Dico a mio fratello al telefono: “Aspetta un attimo”, poi dico più forte. “Ilaaaaa”. E dai,penso, muoviti, ma dove stai andando?

Ti giri solo per un attimo verso di me e poi ti volti, dandomi nuovamente le spalle.  

Io rimango pietrificato.  

Non sono sicuro di avere visto bene.  

In un secondo ti raggiungo, ti giro verso di me e il mondo finisce in quel momento.

Il tuo viso è deformato, l’occhio sinistro e la bocca hanno una piega completamente innaturale, che ti cambia il volto. 
Tutto si fa buio intorno a me,  tutto ciò che ci circonda in quel momento scompare e rimani tu che mi fissi smarrita mentre riesco solo a dire “oh, cazzo, cazzo!”. Mio fratello, è ancora lì ad aspettare che riprenda la telefonata: “Andrea, ti mollo”, urlo. E immediatamente chiamo il 118, mentre tu mi guardi senza capire.
“Presto, venite, mia moglie ha un ictus in atto. Siamo in piazzale Natale Bruni”. Dico proprio così: un ictus in atto, come se avessi appena sfogliato un dizionario medico alla voce “ictus”. Tu mi guardi e mi dici: “Ma che cavolo stai dicendo”?? Anzi, provi a dirlo, perché non riesci a parlare. E te ne rendi conto solo in quel momento. Non ti eri resa conto di cosa stava succedendo neanche quando tutto stava succedendo.  
Sul tuo viso alterato non si muove niente, l’ictus ti ha paralizzata in un’espressione fissa che mette una distanza abissale tra noi due, tra te e il mondo.  Provi a parlare, ma ti esce solo un suono indefinito, monocorde, mmmmmmmmmmm, mmmmmmm.  

“Venite, presto”, continuo al telefono. La sensazione della catastrofe mi avvolge, ma da qualche parte ci dev’essere una riserva di lucidità che mi spinge a mantenere la calma, a parlarti tranquillamente. Ti prendo sottobraccio mentre tu continui a guardarmi con quell’espressione bloccata e provi a parlare, senza riuscirci. Spiego al 118 dove siamo, in quale punto del marciapiedi che circonda la grande rotatoria. Mi incasino, ovviamente, perché dico che siamo dal lato della stazione, anche se siamo dalla parte della chiesa. 

Decido di avvicinarmi al semaforo pedonale mentre ti tengo stretta. Camminiamo piano e io ti ripeto con calma quello che sta succedendo, cercando di minimizzare le cose:  “Hai l’occhio un po’ chiuso”, mento, “ma per fortuna siamo arrivati in tempo, non ti preoccupare”. Sparo cazzate a raffica, non ho la minima idea di quel che sta succedendo, vedo solo che il tuo viso è deformato, la tua voce non c’è più. E tu cominci a non reggerti in piedi, la parte sinistra del tuo corpo comincia a non rispondere. “Tranquilla Ila, tutto ok, tutto ok, per fortuna siamo arrivati in tempo”, continuo a dire.  Ma parlo da solo. Ti tengo stretta, ma non reagisci, mi guardi con quell’espressione che non dice niente. Io comincio a credere che tu non ci sia più, che tu non abbia coscienza di quello che sta succedendo, che tu  ti stia allontanando con la mente verso chissà quale lido da cui potresti non tornare mai. 

Suona il cellulare, è il 118 che mi ricontatta per chiedermi dettagli. Mi chiedono se sei cosciente. "Si. È cosciente", rispondo. Mi chiedono se cammini. "Si, cammina, ma fa sempre più fatica, la sto sorreggendo". Mi dicono di tenerti tranquilla, o almeno credo di capire questo. 
Arriviamo in pochi passi al semaforo pedonale, io non riesco più a tenerti, il tuo corpo non risponde e ti devo tenere quasi in braccio. Al semaforo ci sono altre persone, che non colgono quello che sta succedendo, vedono solo una coppia malamente abbracciata, con lei quasi appesa a lui. Non so dove trovi la lucidità, ma improvvisamente metti la mano destra nella tasca della giacca,  estrai le chiavi della macchina e me le dai provando a dire qualcosa, provando a stare in piedi. Ma ormai non stai più in piedi, ti sorreggo e chiedo a un uomo lì di fianco di aiutarmi: “Mi può aiutare? Mia moglie sta male”, dico. E ti stendo sull’asfalto, con il viso rivolto al cielo, la schiena sulle strisce pedonali. 

Qualche persona comincia a farsi intorno a noi, io mi chino su di te, continuo a parlarti anche se non capisco se riesci a sentirmi, se capisci. Ma il fatto che tu mi abbia dato le chiavi della macchina mi fa pensare che tu sia lucidissima, anche se totalmente inerme. 

Il traffico scorre veloce a mezzo metro da noi, qualcuno si mette in mezzo alla strada a deviare leggermente le auto per evitare che possano travolgerci. E io ti tengo la mano continuando a dirti che per fortuna abbiamo preso questa cosa in tempo. Ma è solo per darti coraggio, perché io comincio ad avere la sensazione di averti persa. Tu guardi da qualche parte, indefinita. Io ti guardo ma non so cosa fare. Siamo due mondi completamente separati, non c’è possibilità di comunicazione.

Comincio a pensare a cose pratiche, alle ragazze che ci aspettano a casa, a cosa dirò, al fatto che stanotte la passerò certamente all’ospedale con te e con le ragazze, a cosa ci aspetta da qui alle prossime ore. A come finirà.

Si sentono le sirene dell’ambulanza in lontananza, ti faccio coraggio: “Ecco, sono già qui”. Mi alzo in piedi, guardo in direzione delle sirene, ma non vedo niente. Quasi contemporaneamente mi cercano di nuovo al cellulare. E' il 118, mi dicono che non riescono a trovarmi e allora spiego dove sono, dico che siamo di fronte al Tempio, che siamo proprio in corrispondenza del semaforo pedonale prima del cavalcavia. L’ambulanza fa un giro a vuoto nella rotatoria, passa a pochi metri da noi e esce dalla parte opposta. Cazzo no, non da quella parte, non da quella parte!! 
Urlo per la prima volta, urlo alle persone che sono lì intorno di fermare l’ambulanza, di fare qualcosa. E in tre corrono al centro della rotatoria, fermano il traffico, si sbracciano per farsi notare dall’ambulanza che intanto si è riavvicinata. E’ questione di pochi secondi. L’ambulanza nota il trambusto nella nostra zona, si ferma immediatamente proprio di fronte al Tempio e subito scendono due addetti che corrono veloci verso di noi.
Si  chinano su di te, ti chiamano. “Ci sente? Ci sente?”, ti chiedono. Tu non rispondi, sei immobile anche se hai gli occhi aperti. “Faccia un cenno con la testa”, ti dicono. E tu rispondi con un cenno. Si, li senti. “Come si chiama”?

Se ci fosse una parte comica, questo sarebbe il momento. Uno dei due medici, chino su di te, si gira verso di me e mi chiede: “E’ sua figlia”?
Beh, vabbè che la mia stempiatura ha raggiunto un livello record e che i pochi capelli che mi sono rimasti virano al grigio senza pietà, ma che dimostrassimo trent’anni di differenza proprio non me l’aspettavo.  Ma i tuoi capelli biondi stesi come un foulard lì sull’asfalto e i tuoi occhi azzurri, ti danno evidentemente un’aria da ragazzina. “E’ mia moglie”, rispondo, e dentro di me un po’ rido e penso: “Questa domani la racconto a Paolo e Davide”. 

Ti prendono la mano destra e ti dicono di stringerla. La stringi.
Ti prendono la mano sinistra e ti dicono di stringerla. Tu pensi: “Dov’è la mia mano sinistra? Dov’è il mio braccio sinistro? Dov’è la mia parte sinistra”? Non c’è. Il tuo cervello l’ha cancellata. 
“Stringa la mano sinistra”, ti ripetono.
Niente. 
“Stringa la mano destra”. E tu la stringi. 
“Adesso la sinistra”. Niente, la sinistra non c’è. 
Nel frattempo è arrivata una seconda ambulanza, un’auto medica, credo.
Ti fanno ancora qualche prova, sono in tre su di te. Mi chiedono di mettermi un po’ in disparte.
“E’ un ictus”, dice uno dei medici.
“Ecco”, penso io. 

Ti caricano velocissimi  sulla barella e ti portano  verso l’ambulanza. Sento uno dei medici che dice di avvisare il Pronto Soccorso che stanno arrivando con un ictus. Io ti seguo a piedi per qualche metro, entro nell’ambulanza, ma il medico mi dice di scendere, che li dovrò seguire con la macchina, andranno all’ospedale di Baggiovara, il Sant’Agostino Estense, alle porte di Modena. 

Una donna, un medico, scende dall’ambulanza e mi chiede di rispondere a qualche domanda. Come ti chiami, dove e quando sei nata. Poi mi chiede quando hai iniziato ad avere i sintomi: “E’ fondamentale essere precisi nei tempi”, mi dice. Lo ripete: fondamentale. Io dico che ci siamo visti intorno alle cinque e mezzo e che tu mi avevi detto che da una mezz’oretta non stavi bene. Lei indossa i guanti monouso, azzurri. Scrive sulla superficie di quello che indossa sulla mano sinistra. “E’ allergica a qualche farmaco”? “No”, rispondo sicuro. Mi chiede se prendi farmaci, poi insiste di nuovo sull’eventuale allergia a qualche medicinale, bisogna essere sicuri. Io rispondo a tutto. Poi sale sull’ambulanza e chiude la portiera.

Dal momento in cui ho chiamato il 118 a quando se ne vanno a sirene spiegate, dopo aver fatto tutti i test lì sul posto, sono passati 15 minuti. Sono stati velocissimi. E adesso volano verso Baggiovara. Dentro, i medici, continuano a dire al conducente: “Passa con il rosso, vai, vai passa con il rosso!”. Durante il tragitto i medici ti tengono monitorata,  tra di loro continuano a dirsi che non riesci a parlare.

Tu, dentro di te, ripeti come un mantra: “Non sta succedendo a me. Non sta succedendo a me”.  

Io rimango con l’ultima immagine che ho di te:  stesa sull’asfalto, muta, semiparalizzata.

Chiamo subito Valeria, tua sorella: “Ilaria ha avuto un ictus”, le dico, anche se faccio un po’ fatica a parlare. 
“Dove la stanno portando?”, chiede lei?
“A Baggiovara”.
Valeria dice che ci raggiungerà al più presto, di tenerla aggiornata. La saluto e metto giù, ma quasi subito lei mi richiama: “Se ti chiedono l’autorizzazione a farle la trombolisi tu dagliela”, mi dice. Io non ho la minima idea di cosa sia la trombolisi, immagino che si tratti dell’intervento che le dovranno fare. Ok, dico, trombolisi.
Torno al semaforo, raccolgo il mio zainetto, la tua borsa e la giacca che ti hanno tolta per visitarti. Tutto ciò a cui riesco a pensare in quel momento è l’organizzazione: primo, chiamare Giulia che sta per iniziare l’allenamento di ginnastica artistica. Se non ha ancora iniziato passerò a prenderla, poi passeremo a casa a prendere Francesca e, insieme, andremo all’ospedale. E poi quel che sarà, sarà.

Chiamo Giulia, il telefono suona a vuoto. Mai una volta che rispondano, né lei né Francesca.  Dopo qualche istante mi arriva un messaggio su Whatsapp: “Papi, sono a ginnastica”, scrive Giulia.
Rispondo: “Ti viene a prendere la Ceci. Poi ti spiego”.  

Poi chiamo Francesca sul cellulare. Niente, non risponde neanche lei. Chiamo sul telefono di casa, finalmente risponde: 
“Ciao Franci”
“Ciao papi, scusa ma non sono riuscita a rispondere al cell, ero di là”
“Franci, senti, ti devo dire una cosa. La mamma non è  stata tanto bene”
“Oddio papi cosa succede!??!”
“No, no, niente, tranquilla. Non è stata tanto bene, aveva mal di testa, ma un mal di testa forte e allora abbiamo pensato che fosse meglio portarla all’ospedale per un controllo. Io sto andando lì, vuoi venire con me”?
“Ma ovvio, certo che vengo. Ma papi sei sicuro che va tutto bene?”
“Si, si, adesso arrivo. Senti, fatti trovare giù, portami il caricabatterie del mio cellulare”.

Salgo in macchina e chiamo Cecilia. Le devo chiedere di andare a prendere Giulia in palestra, io non saprei come fare.  Ma non risponde, allora chiamo Oreste, suo marito. “Ciao Stefano”, risponde lui. “Oreste, ciao. Senti, abbiamo un’emergenza. Purtroppo Ilaria ha avuto un ictus”. 
“Nooooo, non è possibile. Oh nooo”, dice Oreste. Sento la sua disperazione, siamo amici da tanti anni, lui è un informatore farmaceutico, sa esattamente di cosa stiamo parlando. Sa che stiamo camminando su un filo. “Oreste, io mi sto fiondando a casa a prendere la Francesca, potete andare voi a prendere la Giulia in palestra? Lei non sa ancora niente, non volevo dirglielo con un messaggio”.
“Andiamo noi, si”, dice Oreste. Sento la sua voce rotta, tutto intorno a noi precipita. Chiudo la telefonata mentre percorro in macchina la discesa del cavalcavia che fiancheggia lo stabilimento della Maserati.

Arrivo sotto casa, Francesca è già lì in strada che mi aspetta. Sale in macchina: “Come sta la mamma”?
“Franci, la mamma ha avuto un ictus”, le dico. Francesca ammutolisce. 
“La cosa buona – spiego – è che siamo stati velocissimi. Adesso andiamo lì, è in buone mani”. Ma lo dico solo per darle coraggio. Non ho nessuna idea di che cosa stia realmente succedendo.
“Ma cosa può succedere papi?”
“Non lo so Franci. La cosa buona è che siamo stati velocissimi”, ripeto. Ma invento. 
Francesca ha sedici anni, non posso comunque trattarla come se fosse una bambina: “Franci, dobbiamo prepararci al fatto che ci aspetta un periodo molto pesante. Comunque andrà, adesso stiamo tutti vicini alla mamma, ma vedrai che andrà tutto bene”.
“Si”, risponde Francesca con un groppo in gola che non la fa parlare. Piange nel buio della macchina mentre sulla tangenziale voliamo verso l’ospedale.
“Ascoltiamoci un po’ di musica”, dico accendendo la radio. 
Ripeto a Francesca che dobbiamo essere forti, stare vicini. Lei annuisce. 
Mi chiede se morirai. 

Entriamo al Pronto Soccorso e ci fanno accomodare nella sala d’attesa di un ambulatorio. A pochi metri da noi, dietro una porta, ci sei tu. Sei arrivata già da un po’. Quando ti hanno scaricata dall’ambulanza è stato come assistere al pit stop di un gran premio di formula 1. In cinque o sei ti si sono fatti intorno, ti hanno spogliata, ti hanno messo un camice e la procedura è partita. Bisogna capire cosa succede, dove si annida il grumo di sangue che chiude l'arteria e che sta provocando l’ictus, bisogna fare in fretta. Hai freddo, hai molto freddo. La tac risulta mossa perché hai i brividi, tremi. Ma si capisce comunque perfettamente cosa ti sta succedendo.
Noi aspettiamo fuori. Francesca si infila le cuffie, la musica le attutisce l’ansia.

Esce un medico, una donna. E’ uno dei medici che compone lo staff della Stroke Unit di Baggiovara, l’unità che si occupa del trattamento degli ictus. E’ un’unità di rilievo internazionale visti i risultati, ma io ancora non lo so. La dirige Andrea Zini, un medico giovane, bravo. Guida con sicurezza un team giovane e affiatato. Questo, alla fine farà la differenza. La dottoressa ci dice che a minuti uscirà Stefano Vallone, il neuroradiologo che si sta occupando di te. Ci darà tutte le informazioni. Ha già parlato con te, ma non puoi rispondere, perciò illustrerà a me quel che succede. Nel frattempo ti hanno fatta scrivere su un foglietto, che la dottoressa mi porge. La scrittura è incerta, ma è tutto chiaro. Come prima indicazione mi scrivi di chiamare Valeria. Già fatto, penso. Poi dici di occuparmi di Giulia, che è in palestra. Anche a Giulia abbiamo pensato. Poi ci sono altre scritte, tra cui avvisare i tuoi genitori.

Aspettiamo qualche istante, poi dalla stanza esce Vallone.
Ci spiega che hai una sofferenza cerebrale dovuta a un ictus. L’ictus è stato causato dalla dissezione della carotide e successiva formazione di un trombo che è andato a occludere il flusso del sangue in una zona del cervello. L’80% di quella zona sta soffrendo. Bisogna fare in fretta prima che i danni cerebrali diventino irreversibili.
Ci dice che a Baggiovara hanno una metodica che ha dato buoni esiti, ma i tempi sono fondamentali, perciò bisogna agire subito.
“La trombolisi”, dico io.
Lui, paziente, dice che ci sono due strade. La prima sarebbe quella di effettuare la trombolisi, cioè il trattamento farmacologico che scioglie il trombo e garantisce di nuovo l’irrorazione del cervello. 
Ma nel tuo caso c’è un problema che complica tutto:  l’arteria da cui è partito il trombo, la carotide, è lesionata. Ogni arteria è fatta di tre cerchi concentrici. Quello più interno si è staccato e si è spostato verso il centro, formando una piccola rientranza, una sacca che sporge verso la zona centrale della carotide. E’ proprio in quella sacca che il sangue si è coagulato e che  poi si è consolidato in un grumo che è partito verso il cervello. Quindi c’è un doppio problema: il trombo, su nel cervello; e l’arteria lesionata, più giù, all’altezza del collo.

Vallone non ci gira intorno e dice che non sa come si comporterà nei prossimi minuti la carotide. Il rischio potenziale è che l’arteria, dopo la dissezione che ha provocato la formazione del trombo, improvvisamente si chiuda del tutto, impedendo al sangue di salire al cervello. Se questo dovesse succedere, sarebbe un disastro.
Se scegliesse di iniziare a effettuare la trombolisi e la carotide si occludesse proprio durante il trattamento, spiega Vallone, a quel punto lui non potrebbe più fare niente e non ci sarebbero possibilità di tornare indietro.
Quindi, niente trombolisi.
L’ipotesi, allora, è di occuparsi innanzitutto della carotide, metterla in sicurezza, in sostanza aggiustarla, riparare la zona lesionata con uno stent, una gabbia che sostituisce la parte lesionata dell’arteria. Poi, una volta messa in sicurezza la carotide, risalire fino all’arteria cerebrale e rimuovere il grumo di sangue con uno stenttriever, uno strumento che permette di intrappolare il trombo e recuperarlo, liberando l'arteria. Questo intervento, che io trovo fantascientifico, si chiama trombectomia.
Ma i tempi – ripete Vallone – sono strettissimi. Scommettiamo sui tempi per avere buon esito, ma bisogna fare presto, dice.
Io dico “certo, va bene”. E un secondo dopo lui è già rientrato nell’ambulatorio, dove tu sei sveglia e lucida, ma non puoi parlare. 

“Vedrai che andrà tutto bene Franci, siamo in buone mani, hai sentito il dottore? Vedrai che adesso sistemano tutto. Dai dai dai che tutto si sistema”, dico alla Francesca stringendola. Lei si asciuga le lacrime. 
Una dottoressa si avvicina a noi e mi dice: “Vorrei spiegarvi di nuovo quello che sta succedendo, perché non sono sicura che abbiate capito cosa sta succedendo”.
Francesca si fa piccola dentro il cappotto, quasi ritraendosi, e affonda le mani dentro le tasche, aspettando le parole della dottoressa. 
“Sua moglie ha una seria sofferenza cerebrale, che comporta…” 
Io la fermo, le dico che può parlare liberamente e apertamente se ci sono delle cose da sapere. Dico che mia figlia è grande, quindi può dirci quello che ci dobbiamo aspettare. La dottoressa allora guarda Francesca, le chiede quanti anni ha.
“Sedici”, risponde Francesca.
“Sedici”, osserva la dottoressa. “Sei grande, si. Grande, ma ancora così giovane”. E poi ci spiega di nuovo quello che sta succedendo. Ma non aggiunge niente di nuovo, avevamo capito che eravamo in una situazione di rischio estremo. Francesca fa qualche domanda alla dottoressa, soprattutto quando parla di “rischi”, di “conseguenze”. Chiede quali rischi, quali conseguenze. Poi la dottoressa rientra nella stanza in cui stanno iniziando a intervenire sulla carotide. Entreranno con una sonda dall’arteria femorale e risaliranno per posizionare lo stent.

Nel frattempo nella sala d’aspetto del Pronto Soccorso è arrivato Oreste. Faccio qualche telefonata, chiamo Paolo, da cui sarei dovuto andare quella sera e gli racconto cosa sta succedendo. Lui dice che arriverà subito lì a Baggiovara. Gli dico che mi fa piacere. Rispondo ai messaggi che iniziano ad arrivare. Mio fratello Andrea, con cui stavo parlando proprio mentre l’ictus si manifestava, mi scrive chiedendo cosa stia succedendo. Ricevo una telefonata di Valeria, mi dice che sta arrivando a Baggiovara insieme a tuo papà e tua mamma, Augusto e Gabriella. 

Quando arrivano, racconto cosa sta succedendo. Non ci sono parole, c’è poco da dire. Tuo papà Augusto, poi, è laureato in medicina, ha piena consapevolezza di tutto. E tu sei sua figlia, la consapevolezza deve fare molto male in questi casi. Poi Valeria può seguirmi nella parte interna del pronto soccorso, in cui sono ammessi solo i parenti stretti. Riesce a parlare con un medico. Alla parola “dissezione” non trattiene lo stupore. Io non avevo capito che la dissezione della carotide fosse una cosa così complessa, non sono un medico e non capisco il grado di pericolosità. Ma intuisco che le cose sono evidentemente ancora più serie di quanto io immaginassi. Parliamo dell’assurdità di quello che sta succedendo proprio a te, che non hai nessun fattore di rischio. Hai solo 46 anni, vai in palestra, sei magra, non fumi, non bevi, hai addirittura la pressione bassa.

L’intervento, intanto, procede. Noi aspettiamo lì fuori dall’ambulatorio, ma facciamo anche avanti e indietro dalla sala d’aspetto del Pronto Soccorso, dove nel frattempo sono arrivati in tanti. Paolo, Davide, Oreste. E poi Piero, Enrico, Diana, Cecilia, Giacomo. E altri che alla notizia si precipitano. Il mio cellulare suona, amici che chiedono cosa stia succedendo, che si offrono di aiutarci nel modo che riteniamo più idoneo, che ci fanno sentire la loro vicinanza. 

Valeria spiega a tuo papà che si tratta di una dissezione. E tuo papà, in quel momento, sembra perdere le speranze. La dissezione di un’arteria difficilmente lascia scampo, pensa tra sé e sé, memore dei suoi studi.

Giulia non è ancora arrivata, ma la sua lezione di ginnastica è finita, tra poco sarà qui. E le spiegherò cosa sta succedendo. Dovrà essere forte nella fragilità dei suoi 14 anni. Quando esce dalla palestra rimane sorpresa. Non aveva letto il mio messaggio, non sapeva che non sarei andato a prenderla. Ad aspettarla ci sono Cecilia, la moglie di Oreste, e Carlotta, amica del  cuore sia di Francesca che di Giulia. 
La scusa con cui la accolgono è che tu sei all’ospedale con un mal di testa molto forte. E le dicono che io sono lì con te. E poi il discorso devia su cose la mettono subito in guardia. Nel tragitto verso l’ospedale, infatti, Cecilia e Carlotta le fanno domande che sembrano fatte apposta per prendere tempo, per non dare spazio a niente che non sia un diversivo. 
Giulia si irrigidisce appena un po’, ma non fa domande. 
Quando arriva al Pronto Soccorso, vede che siamo tutti lì. Lei entra, io le vado incontro, la prendo sottobraccio e la porto fuori con me, la mia voce cede mentre parlo, mentre le dico che la mamma ha avuto un ictus. 
Giulia piange disperata, mi abbraccia forte, in un secondo è passata dalla prospettiva di una pizza e film in tv a quella della mamma che rischia di morire. Io la abbraccio, le dico che però adesso stai bene, che stai meglio, anche se sono frasi che non hanno senso. Nei giorni successivi Giulia mi confiderà che quando io le dicevo “adesso sta meglio”, lei si aspettava che io da un momento all’altro aggiungessi una cosa come “adesso che è finito tutto, adesso che è in cielo”. Adesso che è finita, adesso che ha finito di soffrire, sta meglio. Giulia teme che io dica questo.

Il tempo scorre, io e Valeria facciamo la spola tra l’ambulatorio e la sala d’attesa. Continuano le telefonate. Chiamo i miei, racconto senza troppe parole cosa sta succedendo. Mio papà mi richiama, dice che il giorno successivo mia mamma verrà a Modena e starà lì fino a quando ne avremo bisogno. Sento anche mio fratello Riccardo, mi dice di tenere duro, loro sono idealmente con noi.

Dentro l’ambulatorio l’intervento procede. La carotide deve essere messa in sicurezza, bisogna assolutamente stabilizzare tutto e poi iniziare con l’intervento. Posizioneranno lo stent nella carotide e poi risaliranno verso il cervello: asporteranno il coagulo che sta causando l’ictus, togliendolo dall'arteria cerebrale media destra.

Tu sei ancora ingabbiata in una dimensione di distacco da tutto, non parli, non muovi il braccio sinistro. E nei giorni successivi avremmo capito che quando eri sotto al portico, che ti giravi in continuazione, lo facevi perché cercavi di capire chi fosse che ti toccava la spalla. 
Chi era? 
Non c’era nessuno, era il tuo braccio. Ma il tuo cervello non lo riconosceva più e tu lo percepivi come un corpo estraneo appoggiato sulla spalla. Ecco perché ti giravi. 

Per un momento sono fuori, nel piazzale del Pronto soccorso. 
Mi avvicina Francesca, in silenzio. Mi abbraccia. Mi chiede: la mamma morirà? 
Anche Giulia vuole sapere: la mamma può morire? 

Siamo noi tre, vicini. Io baro, dico che non puoi morire. Spiego quali potranno essere le conseguenze. 
Giulia mi chiede: “Ma potrebbe parlare come Bossi”?

Nell’ambulatorio tutto procede. Tu sei sveglia e cosciente, ti hanno fatto solo un’anestesia locale nella zona in cui hanno inserito il catetere.

Bisogna evitare assolutamente che la carotide si chiuda, ripararla prima che questo possa succedere. 

E invece succede.

Quello che non deve succedere, succede.

La carotide si chiude. 

La sacca che si era formata, improvvisamente collassa verso il centro dell’arteria e la chiude. Stop. Il sangue non passa più. 

Inizia il conto alla rovescia per le funzioni cerebrali.

Vallone, che nel monitor sta guidando il catetere per posizionare lo stent, mantiene il sangue freddo. Ormai è vicinissimo alla zona lesionata, alla zona che adesso si è chiusa. La decisione di mettere innanzitutto in sicurezza l’arteria, si dimostra la scelta che cambierà la tua vita, Ilaria. 
L’abilità di Vallone permette in pochi secondi di raggiungere la zona che si è chiusa, forzare i tessuti e riaprire la carotide, posizionando lo stent. A quel punto la tua carotide è di nuovo una galleria ampia dentro cui il sangue riprende a scorrere a piena pressione. Questione di secondi, quelli che faranno la differenza nella tua vita. 

Immediatamente dopo, inizia l’intervento per rimuovere il grumo di sangue dall’arteria cerebrale. Tutto procede rapidamente. Vallone, sempre guardando il monitor, guida lo stenttriever sempre più su, fino all’arteria cerebrale: il grumo viene catturato, intrappolato e recuperato, liberando l’arteria. Nel giro di venti minuti inizi a sentire di nuovo la sensibilità al braccio, il tuo viso si rimodella, senti di nuovo il tuo corpo. Muovi le braccia, le sposti, apri e chiudi le mani. Passa un’infermiera e ti chiede come va: “Meglio”, rispondi, e ti accorgi che improvvisamente hai recuperato la capacità di parlare. Sono da poco passate le nove e mezzo della sera. Nell’ambulatorio risuona la tua voce, che era scomparsa da più di due ore. E’ un ottimo segnale, i medici sono soddisfatti. Portano la notizia fuori, nella sala d’aspetto: “Siamo andati bene”, dicono. 

Passa qualche minuto. Io e Valeria possiamo entrare. Chiediamo dove sei, ci indicano una barella lì in fondo. Non ti si vede, siamo in un lungo corridoio, ti raggiungiamo da dietro e, improvvisamente, dalla barella si vedono salire le tue braccia, verso l’alto. Apri e chiudi le mani, le apri e le chiudi tante volte. Riprendi possesso del tuo corpo, poco alla volta. Arriviamo di fronte a te, sei come nuova, non c’è nessun segno del passaggio violentissimo e brutale dell’ictus. Non ha lasciato tracce. Ci dici che non riesci a parlare benissimo, ma in realtà parli quasi perfettamente. E’ solo questione di ore e anche il linguaggio, che era bloccato, riprenderà a fluire del tutto, senza alcun intoppo. Sei di nuovo tra di noi, indenne. 
Ti fanno salire al primo piano, nello spazio protetto della Stroke Unit, dove ti terranno sotto stretta osservazione. Sei nel posto più sicuro del mondo, guidato da un medico bravissimo, Andrea Zini. Lì ci raggiungono anche Francesca e Giulia, e tuo papà e tua mamma. Devi riposare, ci concedono solo un minuto a testa per salutarti. Piangi, sei spaventata, ma sei di nuovo qui. 

La tac a 24 ore di distanza darà esito negativo. Non c’è stata nessuna lesione, non c’è nessuna conseguenza, di nessun tipo.
Sei illesa. 
Nessun segno. Nessuno. 
Nessuna conseguenza. Nessuna. 
E sei con noi. 
Una manciata di giorni di degenza, poi torni alla vita di tutti i giorni.

Seba, sul suo profilo facebook, il giorno successivo scrive alcune parole, preziose, che in poche righe racchiudono il senso di un’esperienza che non è stata solo nostra, ma di un territorio, di un modo di fare.  
E che, speriamo, possa salvare altre vite: 

felice e orgoglioso di questa città dove in un ospedale pubblico c'è uno dei migliori centri europei per l'emergenza neurologica che ha preso per i capelli un'amica che se ne stava andando e ce l'ha restituita in cambio di un sorriso e una stretta di mano

venerdì 29 agosto 2014

Il muro silenzioso dove fu assassinato Marco Biagi

Mi capita ogni tanto, camminando nel centro di Bologna, di passare in via Valdonica, dove Marco Biagi è stato assassinato dalle Nuove Brigate Rosse il 19 marzo del 2002.
E' stato ammazzato proprio sotto casa, mentre appoggiava la bicicletta al muro, di fianco al portone di ingresso. Da tempo chiedeva che gli restituissero la scorta, che gli era stata tolta qualche tempo prima. Ma i proiettili sono arrivati prima delle carte bollate.
Su quel muro, non c'è alcun segno che ricordi quel fatto. Non una targa. Non un mazzo di fiori. Niente. Un muro anonimo, così anonimo da essere trattato come gran parte dei muri di Bologna, imbrattato da qualche scarabocchio di serie D. Quel muro vuoto parla molto più di tanti discorsi, la dice lunga su quanto la famiglia di Biagi abbia sentito la lontananza dello Stato, culminata nelle celebri parole che l'ex ministro dell'Interno Claudio Scajola aveva riservato a Biagi dopo la sua morte: "Non contava, era un rompicoglioni che voleva solo il rinnovo della consulenza".
E' vero, pochi metri più in là il piccolo slargo è stato rinominato "piazzetta Marco Biagi", ma a me è sempre sembrata un'algida riappacificazione, quasi forzata, soprattutto se confrontata con altri luoghi di Bologna in cui è invece evidente la partecipazione corale, l'affetto, addirittura l'ossessione della memoria.

In via Mascarella, ad esempio, nel punto in cui è stato ucciso Francesco Lorusso c'è una lapide ancora integra, di fronte alla quale ogni anno (dal 1977) si ricorda l'evento.
E i fori dei proiettili sono stati mantenuti nel muro e protetti da una teca di vetro, che è diventata quasi un altare laico per tutta un'area politica bolognese, al punto che quando due writers - "idioti e ignoranti" per loro stessa ammissione - l'hanno imbrattata, parte della città è insorta e gli imbrattatori si sono scusati pubblicamente, riconoscendo l'errore. Ma tutto il tratto di via Mascarella intorno alla lapide e ai proiettili è testimonianza, anche coloratissima, dell'evento. Una memoria sostanziale, verrebbe da dire, quasi che fermare quei momenti sia l'unica via per non dimenticare.
E alla stazione è la stessa cosa, con una lapide che ricorda uno per uno (compresa l'età) i morti; una parete ricostruita lasciando un'apertura nel muro, mantenendo anche quella porzione di pavimento in cui fu posizionata la bomba, circondata da una transenna che la protegga e che ne mantenga integra la potenza evocativa. E l'orologio esterno, fermo alle 10.25, è ancora lì, simbolo della strage, tolto solo una volta - per sbaglio - da un operaio nel corso di lavori di ristrutturazione, poi prontamente risistemato al suo posto.

Al confronto, pare quasi che il muro silenzioso di via Valdonica, in un certo senso, sia la risposta alle istituzioni, che hanno dovuto "ripiegare" sulla piazzetta lì di fianco.
E quel muro, silenzioso, parla molto più di tante targhe commemorative.









mercoledì 27 agosto 2014

L'abisso della vecchiaia nella lezione di Massimo Fini

Qualche giorno fa Davide, in vista di un lavoro che faremo, mi ha suggerito di leggere "Ragazzo. Storia di una vecchiaia", di Massimo Fini.
Nella quarta di copertina si spiega esattamente cosa ci si deve attendere dalle 111 pagine, tra le più fulminanti che io abbia mai letto: "Una spietata analisi, senza infingimenti, senza autoillusioni, senza autoinganni sulla vecchiaia, al di là delle ipocrisie e della retorica con cui oggi cerchiamo di abbellire ed edulcorare quella che chiamiamo eufemisticamente "la terza età" rendendola così, se possibile, ancor più crudele e beffarda."
Non posso fare altro che suggerire a mia volta questa lettura - potentissima e lucida fino alla mancanza di speranza - soprattutto a chi è già negli "anta". Non per scoraggiarli, al contrario. Per trovare il coraggio di aprire porte sempre chiuse, dietro le quali Fini - magistrale - ci prende quasi per mano anticipando in un certo senso un viaggio tra i dettagli dell'inevitabile.

Tra le pagine più emozionanti, senz'altro quelle dedicate alla madre.

"La detestavo. Educata all’epoca degli Zar e in quegli ambienti, era una russa dispotica, dura, anaffettiva, completamente priva di capacità autocritica, che si esprimeva per ordini perentori, quasi sempre arbitrari o cervellotici, che non potevano essere in alcun modo discussi. «Fai così». «Perché mamma?». «Perché lo dico io». «Ma spiegamene almeno le ragioni». «Fai così e basta». Mio padre era morto, io ero minorenne e finché vissi a casa sua dovetti subire. Ma una volta, esasperato, la scaraventai per terra e la calpestai. Con voluttà. [...] Un giorno mi telefonarono che era morta. Andai a vederla. La morte le aveva restituito i suoi tratti asiatici, tartari, gli zigomi sporgenti, gli occhi dal taglio obliquo, le labbra sottili, enigmatiche, irrigidite in una piega altera e crudele, come se alla fine della vita si fosse ricongiunta alle sue origini. Era bellissima. Affascinante e terribile, come sempre. Ne fui turbato. La morte di una madre, quali che siano stati i nostri rapporti con lei, è sempre traumatica. Ci rendiamo conto che sono stati tagliati anche gli ultimi ormeggi che ci legavano alla sponda da cui eravamo partiti. Che ora siamo definitivamente in mare aperto e che tocca a noi.
Lei era un’ebrea convertita alla religione ortodossa, in realtà non credeva a nulla, né a Dio né a Satana. Le organizzai comunque un piccolo funerale ortodosso, che è una cosa semplice e serena. Si tengono in mano delle candeline colorate, accese, e chi ci crede prega per l’anima del defunto. Avrei dovuto dire qualche parola di commiato ai pochi amici e conoscenti presenti. Non intendevo in alcun modo nascondere i difficilissimi rapporti che avevo avuto con mia madre, volevo però ricordarne il coraggio. Era passata, nel giro di pochissimi anni, dal Medioevo alla Modernità, dalla grande ricchezza della nobiltà terriera zarista alla miseria e alle devastanti carestie della Russia postrivoluzionaria e, in seguito, fuggita dal suo paese, alla povertà bohémienne della Parigi degli anni Trenta, aveva attraversato rivoluzioni e guerre, conosciuto tragedie collettive e individuali, un fratellino ucciso durante i tumulti bolscevichi, l’intera famiglia d’origine sterminata dai tedeschi, una figlia le era morta a pochi giorni dal parto, l’altra era impazzita in età adulta. Era comprensibile che fosse stata costretta a farsi una scorza dura. E aveva affrontato tutto, i momenti tragici e quelli felici, perché in un continuo saliscendi c’erano stati gli uni e gli altri, con dignità, con fierezza e, appunto, con grande coraggio. Quel coraggio che le ho sempre ammirato, temendo di non averne altrettanto. Ma quando fui davanti alla bara le parole mi si gelarono in bocca e non riuscii a dir nulla. Pensavo che mia madre mi fosse ormai del tutto indifferente. Anzi, per tutta la vita avevo creduto di odiarla. Capivo, ora, che, a modo mio, che poi era molto simile al suo, l’avevo amata. Certamente più di mio padre, troppo razionale, troppo valoriale, troppo ottocentesco e distante come lo erano spesso i padri della mia generazione. Lei, perlomeno, era preottocentesca, era feudale. Era barbara. Era selvaggia."

martedì 19 agosto 2014

Come seppellire una persona con un titolo sbagliato

La lettura di un articolo vi ha mai provocato il blocco della respirazione? A me si, una volta, al bar, mentre stavo per divorare una brioche. Era un mio articolo. La mancanza di ossigeno l'ha provocata il titolo, che però non avevo scritto io. Era l'unica cosa che non avevo scritto. Ma ormai non c'era più niente da fare, il danno (irreparabile) era fatto.

La storia che avevo raccolto era quella che molti cronisti sognano prima o poi di poter raccontare: un riscatto. Una vita che sembra perduta e che invece, dopo mille vicende - spesso cupe e dolorose - trova una nuova via.
Da qualche tempo - diversi anni fa - avevo conosciuto R., un educatore in una comunità di recupero per tossicodipendenti. Incontrandolo più volte per lavoro - dato che abbastanza spesso scrivevo di questi temi - eravamo entrati in confidenza. Poco alla volta, quindi, mi aveva raccontato la sua storia: lui stesso, prima di diventare educatore in comunità, era stato tossicodipendente. Poi, dopo un percorso di recupero riuscito perfettamente, aveva scelto di rimanere a lavorare in comunità. Aveva studiato, si era diplomato, aveva conseguito tutti i titoli per poter esercitare la professione ed era rimasto lì come educatore. E poi, poco alla volta, era diventato addirittura il responsabile di tutti gli educatori. La comunità, poi, aveva allargato la propria attività anche al recupero degli alcolisti e al supporto di altre forme di disagio. Era stato quindi necessario aprire altre strutture sul territorio e, poco dopo, moltiplicare l'esperienza in una rete di comunità sparse in tutta Europa.
R. alla fine era diventato il responsabile dei progetti rieducativi di tutta la rete delle comunità in Europa.
Un bel riscatto, no? Soprattutto per uno che aveva avuto una storia come la sua: emigrato da bambino all'estero in un Paese d'Oltralpe, non si era mai integrato. E nell'eroina aveva trovato il torpore per annichilirsi e sopportare un mondo che non era il suo.
Mi aveva raccontato che i genitori, nell'illusione di tornare presto in Italia, appena arrivati all'estero avevano sistemato la valigia sotto al letto, come se nel giro di pochissimi mesi dovesse essere riaperta per riporre le proprie cose e rientrare in Italia con il vento favorevole del trionfo.
Quella valigia, però, dopo qualche tempo era stata mestamente chiusa dentro l'armadio. Era evidente che l'idea di rientrare in Italia era praticamente scomparsa.
R., come tanti emigrati, aveva faticato molto a integrarsi a scuola. E, prestissimo, erano arrivate le prime canne con cui stordirsi, poi l'eroina. Aveva solo 15 anni e la sua vita era finita nel binario morto della tossicodipendenza.
I genitori avevano quindi deciso di tentare la via della comunità di recupero, accompagnandolo di nuovo in Italia.
E da lì, come detto, R. aveva ripreso in mano la propria vita, abbinando al riscatto personale e professionale anche la solidità di un matrimonio e l'arrivo di due figli.
Insomma, un trionfo in tutti i sensi.
A cui - se proprio uno ci tiene - mancava solo il sigillo del riscatto pubblico, in modo che i pochi che erano a conoscenza delle sue traversie giovanili, potessero sapere di che pasta era fatto e di come aveva saputo reagire.
Lui non ci teneva particolarmente a far sapere com'era andata a finire, a raccontare in un'intervista com'erano andate le cose. Anzi, proprio non ci pensava. Ma io avevo insistito, la sua storia poteva essere di grande incoraggiamento per tantissime persone.
Insomma, alla fine si era fatto convincere e lo avevo intervistato.
Per dare all'intervista una sorta di "fil rouge" che la caratterizzasse da cima a fondo, avevo scelto l'idea ricorrente di questa valigia risposta sotto al letto e poi sistemata dentro all'armadio, più e più volte, come emblema della grande difficoltà.
Ignoravo l'effetto che questa valigia avrebbe fatto al collega che, di lì a poco - quando la redazione stava già per chiudere - avrebbe titolato l'articolo. Si, perché - come forse non tutti sanno - in genere (almeno fino a qualche anno fa) nelle redazioni il titolo non lo fa l'autore dell'articolo, ma un collega, che rilegge il pezzo e individua un titolo che sappia essere sintesi del contenuto e che, allo stesso tempo, garantisca la necessaria enfasi per attirare l'attenzione del lettore.
Quando ho consegnato il pezzo - prima di tornarmene a casa all'ora di cena - ignoravo che il titolo lo avrebbe scritto chi si occupava spesso di cronaca nera (guidato dall'inevitabile lessico intriso di armi, rapine e inseguimenti) . Ma me ne sarei accorto il mattino dopo, al bar, dove ero entrato per fare colazione e leggere con calma l'articolo nell'edizione cartacea.
Sistemato il cappuccino sul tavolo e indirizzata la brioche verso il primo morso, avevo sfogliato il giornale per arrivare alla pagina dedicata a R.
Ed era stato a quel punto che l'aria mi era mancata, perché avevo capito che in un giorno avevo annullato un riscatto personale che aveva richiesto 15 anni di fatiche.
R. era ritratto in una grande foto. E, sopra di lui, a tutta pagina, il titolo diceva:
"Da Modena alla Svizzera con la droga nella valigia".