lunedì 12 febbraio 2018

Siamo davvero tutti "Impalare Cécile Kyenge"?



"Impalarla è il minimo che si può fare".
Loretta Giuliani, simpatizzante della Lega Nord con tanto di foto di Salvini sulla propria pagina Facebook, augura questa pratica così poco gradevole - si fa per dire - a Cécile Kyenge, presente due giorni fa a Macerata alla manifestazione antifascista.
Perché glielo augura? Perché, nel corteo, un gruppo di decerebrati ha urlato lo slogan "Ma che belle son le foibe da Trieste in giù!"
Dunque, la regola è questa: a una terrificante idiozia si risponde con una terrificante idiozia.
Due idiozie -  non vorrei sembrare didascalico, ma correrò il rischio -  il cui trait-d'union è l'augurio della morte. Possibilmente da lenta e dolorosa agonia.
E' vero, nessuna novità. I social sono una fogna.
A me, però, pare che rassegnarsi all'idea che queste cose siano normali sia, semplicemente, ingiusto.
Ingiusto per noi stessi: come persone, come cittadini, come Paese.
A quale livello si abbassa, giorno dopo giorno l'asticella delle cose che consideriamo accettabili, normali?
Lo so che è fuori moda, che ci si sente uomini dell'Otttocento a fare appello alla morale, all'etica.
Ma io non mi vergogno, il richiamo all'etica nei rapporti di convivenza civile e nel dibattito politico  è un tassello fondamentale. Anche perchè il contrario, cioè accettare tutto questo, avvalla passo dopo passo l'imbarbarimento. E, dopo, c'è solo l'abisso.

Come dice Nanni Moretti, le parole sono importanti.
E se dell'infoibamento, azione disumana, sappiamo già tutto,  probabilmente dell'impalamento sappiamo poco. E allora, rispetto a questa pratica che viene augurata alla Kyenge, forse vale la pena rinfrescare la memoria, prima di spenderla come elemento di dibattito pubblico.

"Il suppliziato veniva completamente denudato e costretto a sdraiarsi con il ventre a terra. Dai due aiutanti del boia gli venivano legate le mani dietro la schiena e assicurata una corda a ciascuna caviglia, in maniera tale che, tirando le funi, le gambe si divaricassero, agevolando in tal modo il carnefice a individuare l'orifizio anale o vaginale per l'introduzione della punta del palo. Il lungo palo di legno era largo alla base e molto sottile in cima, dove era rivestito da una punta metallica smussata; veniva appoggiato su due tozzi cilindri di legno, che servivano da rulli per farlo scorrere nel punto di inserimento. Affinché entrasse con facilità nel corpo del condannato, la punta veniva spalmata di grasso animale, olio o miele.

Il punto di entrata poteva essere l'ano, la vagina oppure una parte bassa dell'addome. Dopo aver introdotto la punta del palo, questo veniva spinto subito all'interno del corpo del suppliziato, penetrando rapidamente di alcuni centimetri. La progressiva introduzione del palo nel ventre del condannato avveniva per opera del boia per mezzo di ripetuti colpi, dati con un pesante mazzuolo all'estremità più grossa del palo. Grazie a un'adeguata abilità dovuta all'esperienza il carnefice era in grado di guidare i due inservienti su come tirare le funi legate alle caviglie, in modo da mantenere il corpo del condannato nella posizione voluta, durante gli inevitabili sussulti e contorcimenti, per far sì di non ledere organi vitali allo scopo di prolungarne al massimo l'agonia.

Sopra la scapola destra gli si formava una protuberanza che il carnefice incideva a croce. Ancora qualche colpo leggero e spuntava la cima del palo rivestita di metallo, restava soltanto da spingerlo finché fosse all'altezza della guancia. Per ultimo, gli venivano legati i piedi al palo in modo che non scivolasse in basso, e a volte il corpo del condannato veniva ricoperto di miele o altre sostanze dolci, in modo da attirare ogni tipo di insetto e aumentare ancor di più la sofferenza del condannato, costretto così a subire anche il tormento delle punture e il fastidio causato dagli insetti.

Se il fegato, i polmoni e il cuore erano rimasti integri, il condannato era vivo e cosciente. Servendosi di corde gli assistenti del carnefice issavano il palo, in modo che l'estremità più larga si conficcasse in una buca scavata nel terreno, poi lo rinsaldavano con cunei di legno. La morte sarebbe arrivata molti giorni dopo".