domenica 19 marzo 2017

La mano destra di Kurt Diemberger

La mano sinistra di Kurt Diemberger appoggiata sulla mia spalla non dice molto di lui. E' la destra, a cui mancano alcune falangi, a raccontare la sua vita.
Congelate durante la spedizione al K2 nel 1986, le falangi amputate sono state solo una piccola parte del prezzo pagato a quella montagna su cui - da giovane - aveva giurato a se stesso che non sarebbe mai salito. E invece le cose della vita, lo sappiamo, prendono la piega che pare a loro e nel 1986 Kurt ci è salito. In quella spedizione Julie Tullis, la sua compagna di cordata, è morta lassù. E con lei altri due alpinisti - provati dal congelamento e piegati dalla spossatezza che a quelle quote diventa letale - non hanno mai fatto ritorno.
Chi fa dell'himalaysmo la propria ragione di vita, sa che queste sono cose da mettere in conto, in un certo senso non intaccano la passione.  Ne sono parte integrante.
Ma non confondete le cose. Per Kurt andare in montagna non è mai stata una sfida. E' stata la ragione di vita. Una sorta di precondizione per vivere. Ed è stata vita piena. Piena. Senza compromessi.
Davanti a 500 persone al centro culturale di Marano sul Panaro, l'altra sera Diemberger ha raccontato la sua vita di alpinista, himalaysta, esploratore. E ha scelto una parola che ne sintetizza il senso: glück.
"In tedesco questa parola significa sia felicità, sia fortuna. Non è come l'italiano, che ha bisogno di due parole". Una vita, la sua, in cui felicità e fortuna si sono intrecciate in continuazione, una vita spinta da un motore a cui non si può opporre resistenza: "Io volevo sapere. Non potevo fermarmi. Mai. Prendendomi dei rischi, certo. Ma senza il rischio non si va da nessuna parte, si rimane fermi. E io invece volevo sapere, andare avanti. Ad ogni costo".
Dei successi di Kurt Diemberger è stato detto tutto. E definirlo "leggenda vivente" non ha, per una volta, il sapore stucchevole della retorica a buon mercato.
Ma a me ha colpito il fronte degli insuccessi, dei fallimenti, delle disfatte. Perché è lì che si consolida il mito.
E, su questo piano, a Diemberger è toccato in sorte uno degli episodi più noti dell'epopea dell'himalaysmo, vale a dire la scomparsa di Hermann Buhl, altro mito epocale nell'ambiente.
Il 27 giugno 1957 di ritorno dal Chogolisa, nel Karakorum, dove i due ne avevano appena conquistato la vetta, Buhl precipitò dopo aver messo il piede in una cornice di neve. Il suo corpo non fu mai ritrovato e Diemberger finì al centro di assurde polemiche con l'accusa di essere in qualche modo responsabile della morte di Buhl. Accuse sempre respinte, ma che qualche anno più tardi si sarebbero ripresentate con lo stesso schema anche per Reinhold Messner, che il 29 giugno 1970 - rientrando con il fratello Gunther dalla vetta del Nanga Parbat - lo vide scomparire sotto una valanga di ghiaccio. Lo cercò per tre giorni, ma senza fortuna, respingendo poi per più di 30 anni l'accusa infamante di averlo sostanzialmente abbandonato lassù, vista la scarsa preparazione fisica, in una zona diversa da quella in cui sosteneva ci fosse stata la valanga.  Fino a quando, nel 2005, il ghiacciaio non ne restituì il corpo esattamente nel luogo che Reinhold Messner aveva sempre indicato.
Il disastro è dietro l'angolo, ma fa pare integrante di queste biografie fuori da ogni "mainstream", in un certo senso condannate ad assecondare la propria indole di dannati in cerca di conferme progressive del senso della vita.
E la sconfitta, in questo quadro, ci sta tutta. Non c'è cultura della vittoria, ma solo del percorso, che può anche avere nelle tragedie personali un elemento di crescita.

Proprio come insegna Reinhard Karl nel suo straordinario "Tempo per respirare", :

"Siamo rimasti in vita, ma è stata una sconfitta,
e le sconfitte bruciano. Ma in seguito
si vedono le montagne e il rapporto con esse
in una luce diversa. Perché forse una sconfitta
è altrettanto costruttiva quanto la paura.
Tempo per riflettere – tempo per respirare.”