domenica 23 agosto 2015

L'inevitabile(?) nuova guerra nei Balcani

Una ventina d'anni fa, poco dopo la firma degli accordi di Dayton, sono andato a Sarajevo per raccontare per la Gazzetta di Modena (quando la dirigeva Antonio Mascolo) i primi giorni del risveglio della città, livida e piena di dolore, che provava a rialzarsi dopo più di 1000 giorni di assedio, durante i quali erano state ammazzate circa 12mila persone (per tacere di tutto il resto).
Nella delegazione di cui facevo parte c'era, solo per citarne una, anche Antonella Iaschi, poetessa grintosa e allo stesso tempo delicata, oltre che fenomenale cuoca, di cui ho ancora perfettamente chiara la maestosità della torta al cioccolato.
In quell'occasione siamo stati ospiti qualche giorno di una famiglia serba, in un palazzone senza finestre (non c'erano vetri aggiustati a Sarajevo), senza acqua, con l'elettricità razionata. Privati di tutto, ai padroni di casa non difettava certo la dignità, né il senso di ospitalità. Al contrario.
Una sera, con le poche cose che avevano in casa, hanno organizzato una cena per noi, invitando anche un vicino di casa che stava al piano di sopra.
Quello che a me di primissimo acchito era sembrato "solo" un simpatico vecchietto, cordiale e di buone maniere, nel giro di pochi minuti si era rivelato per quel che era: una personalità straordinariamente eclettica, capace di sondare con poche domande quali lingue conoscessimo e, una volta individuato il francese come terreno comune, per quanto precario, con un paio di battute mi aveva subito bonariamente preso per il culo e, effettivamente, eravamo entrati in sintonia totale. Potrei dire che ci si era subito voluto bene.
Lui era Stevan Bulajic, l'autore di Carovana alata, coautore della sceneggiatura del film "La battaglia della Neretva", scrittore, sceneggiatore e saggista molto noto in tutti i Balcani, ma anche nel resto d'Europa per quel che riguardava il filone della narrativa per ragazzi.
Con le poche parole a disposizione viste le barriere linguistiche, abbiamo però parlato di tante cose. E ricordo che il tema della convivenza tra etnie e religioni, tra serbi e croati, tra musulmani e cattolici, tra atei e agnostici, non sembrava affatto tra le principali questioni legate alla quotidianità di chi subiva l'assedio. Anzi. Le cose importanti erano altre, molto più terrene.
Tra l'altro tutti loro erano serbi, quindi in linea teorica erano tra i responsabili dell'assedio. Ma nella loro quotidianità le relazioni con chiunque erano del tutto normali. Come per la maggior parte degli assediati.
Quando ce ne siamo andati, Bulaijc ci ha lasciato un paio di suoi libri - tra cui uno con la sua dedica - qualche ricetta e un paio di trofei di caccia, cose tipo corna di capriolo, che conservo ancora.
Piccoli doni da parte di chi non aveva più niente e che, per questo, offriva le cose più personali e quotidiane.
Non sono più tornato a Sarajevo da allora, ma in questi giorni - in occasione del ventesimo anniversario del massacro di Srebrenica - ci è tornato Davide Lombardi, che mi ha raccontato di una città profondamente diversa da quella che ricordo io. Il melting pot della Sarajevo degli anni novanta ha lasciato spazio a qualcosa di più complesso e so che Davide, presto, lo racconterà in un video che attendo con curiosità. Sullo sfondo c'è la questione dell'islamizzazione dei Balcani.
Davide mi ha anticipato alcuni temi, tra cui ad esempio l'organizzazione scolastica divisa in maniera ferrea tra quella per musulmani e quella per tutti gli altri. Ma so che ci sarà molto altro. E confido nella lucidità di analisi di Davide per sapermi orientare.
Ne ho parlato anche con Luca De Pietri, che quei posti li conosce bene e ha le antenne anche su quanto accade in Albania, Kossovo,Voivodina e altri luoghi del puzzle balcanico.
Sia Davide che Luca mi dicono che nel prossimo futuro, un po' per l'intrinseca natura di detonatore che hanno i Balcani, un po' per la novità dell'Is e delal capacità di fare adepti, un po' per lo scontro tra religioni che non si è mai effettivamente dispiegato, le cose da quelle parti potrebbero tornare rapidamente a precipitare. Non tanto per questioni religiose, ma per le questioni di organizzazione sociale che da queste discendono.
Su questo, per chiudere, mi è sembrato calzare a pennello un commento di Michel Houellebecq che ho letto ieri su Repubblica, all'interno di un confronto con Alain Finkielkraut, intitolato "Difendiamo le radici di un Occidente al tramonto". Dice Houellebecq: "Non credo che si possa dissociare la questione dei costumi dalla questione religiosa. Io ho letto l'ayatollah Khomeini, ed è interessante. Sarebbe bello avere in Francia persone di un simile rigore, che sottolineino come l'Islam parli poco delle questioni metafisiche e molto più dei costumi e dell'organizzazione sociale. E' questa modestia metafisica che gli ha consentito di attraversare senza problemi le rivoluzioni scientifiche che si sono succedute, mentre il cattolicesimo andava a sbattere contro Galileo e poi contro Darwin".





domenica 16 agosto 2015

Abolire il carcere

Qualche anno fa (molti anni fa, dai) ho avuto un compagno di banco molto più vecchio di me. Era stato in carcere e tentava di recuperare il tempo perduto. Era stato arrestato per spaccio ed era un tossico. Ma era riuscito a disintossicarsi dopo un periodo di comunità.
Era simpaticissimo, allegro. L'unico momento in cui perdeva il suo buonumore era quando gli facevo delle domande sul carcere. Aspirava una boccata più profonda del solito dalla Marlboro perennemente tra le labbra e guardava da qualche parte indefinita, senza rispondermi.
Solo una volta, ma aveva appena fumato una canna, si è lasciato andare dicendo semplicemente che "in carcere è meglio non andarci, succedono cose bruttissime".
Qualche mese dopo l'ho perso di vista e ho saputo che era tornato in carcere.
Questa cosa mi è tornata in mente in questi giorni leggendo "Abolire il carcere" di Luigi Manconi, un saggio dedicato alla completa inutilità della galera e alla necessità - come scrivono gli autori - di "sostituirla con misure alternative più adeguate, efficaci ed economiche, capaci di soddisfare tanto la domanda di giustizia dei cittadini nei confronti degli autori di reati più gravi (solo una piccola quota dei detenuti), quanto il diritto del condannato al pieno reinserimento sociale al termine della pena, oggi sistematicamente disatteso".
Se la si guarda dal punto di vista della recidiva, i conti sono presto fatti: il 70% di chi entra per un reato, una volta uscito lo commette di nuovo. Se lo si guarda dal punto di vista dei soldi a carico della collettività, i conti sono questi: ogni detenuto costa 125 euro al giorno, pari (dati 2013) a circa 3 miliardi di euro l'anno, letteralmente buttati al vento, dato che tre volte su quattro quegli stessi individui, una volta usciti, torneranno a delinquere. Insomma, il carcere non serve.
Esiste un'alternativa? Si, ma è lunga e faticosa, perché richiede un cambio di paradigma culturale, a partire - citando la postfazione di Zagrebelsky - dall'assicurare la dignità al carcerato, il suo diritto a un reale percorso di re-integrazione e di espiazione, che quasi mai deve passare per una gabbia, ma più spesso per una pena in cui ci si mette al servizio di quella stessa comunità colpita al cuore con il proprio delitto.
Da lì, la strada è in discesa. Per tutti.
Lettura consigliata.
Ah, dimenticavo: io di amici che hanno avuto difficoltà con l'eroina ne ho più d'uno. E sono tutte persone, a conti fatti, straordinarie. 

venerdì 7 agosto 2015

La politica (in un certo senso) divina


La prima cosa che ha detto è stata "Mi appoggio, perché altrimenti non sto in piedi". Poi ha aperto un foglio che teneva ripiegato in quattro nella tasca dei jeans. Tenendolo tra le mani, grandi come badili e forti come può avere solo chi ha lavorato la terra, ha letto un piccolo discorso di ringraziamento scritto di suo pugno.
E alla seconda riga ha pianto.
E ha ringraziato Dio per quello che prima gli aveva dato, poi tolto, e poi restituito.
Lui è il capostipite della famiglia Bonvicini, che nel 2013 una mattina di marzo, ha visto in pochi momenti la terra franare a Montecuccolo, sopra Pavullo (Mo) e portare con sé stalla, fienile, ricovero attrezzi e tutto il resto che dall'inizio del '900 si intrecciava con le loro vite.

Il lavoro di una vita che scivola via.

La vita che perde senso.

Ma poi ecco le maniche arrotolate e la determinazione.
E i soldi, ovviamente. Tanti. Quasi due milioni e mezzo di euro per ricominciare.
Metà li ha messi la Regione Emilia-Romagna grazie a fondi Europei. Una buona fetta, più di 800mila, una banca. E il resto è arrivato da altre parti.
Lui però ha ringraziato innanzitutto Dio. E anche il parroco, intervenuto pochi giorni fa alla cerimonia di inaugurazione della nuova stalla, ha chiesto a Dio "la pioggia dal cielo che bagna le zolle della terra" come elemento per dare a quel sogno la concretezza di una vita.

I vantaggi smisurati che derivano da un lavoro come il mio, sono quelli di poter incontrare tantissime persone ogni giorno nei luoghi della loro quotidianità, incontrarle dal vero, toccarle, sentire le loro parole, percepirne i sogni e le paure, le ambizioni, distinguerne chiaramente i percorsi di vita.

Da laico, non mi vergogno a dire che ho ammirato davvero la serenità con cui Bonvicini ha visto la bellezza divina, chiamiamola così, in un percorso che per me, invece, è  stato un iter in cui buona politica e burocrazia hanno fatto il loro corso virtuoso, ridando sostanza al sogno di almeno tre generazioni della sua famiglia.