mercoledì 21 dicembre 2016

Michele Massari: un Piccolo Cafè, una smisurata modestia.

Michele Massari, il papà del Piccolo Cafè di New York, mi manda un messaggio su whatsapp per dirmi che sul Corriere della Sera c'è una sua foto in cui indossa la stessa t-shirt che indossava un mese fa quando ci siamo conosciuti a New York allo store della Ducati, a Tribeca, in occasione di un evento dedicato a Bologna.
In effetti è proprio la stessa t-shirt.
Se non sapete cosa sia quel disegno, ve lo dico io: è roast-beef.
Ma non è un roast-beef qualunque.
La storia di quel roast-beef la racconta Michele al Corriere della Sera così:

"Un giorno ricevo una lettera che mi informa dell’ennesimo aumento dell’affitto dei locali dei miei ristoranti. Meditavo su come affrontare il problema cucinando un roast-beef , l’ho fotografato. Da qui è nata l’idea di far imprimere le immagini del nostro lavoro su delle t-shirt".

Un'idea che, da quel momento, è diventata un nuovo business, una linea di t-shirt - #BolognaNY - ispirata alla cucina. E, a ruota, anche canotte, tessuti, fodere per giacche. Che adesso vanno a ruba nella Grande Mela, oltre che online.

La cosa che più mi lascia sbigottito è la modestia di Michele, che mi scrive:

"visto che la indosso nella foto che ci siamo fatti assieme... condivido con infinita gioia e orgoglio, quello che per me era solo una enorme forma di espressione e esercizio creativo, sono felicissimo che piaccia e che abbia trovato spazio sul Corriere della Sera edizione Nazionale sezione Moda, che sogno!!"

Michele che considera un sogno avere avuto spazio sul Corriere della Sera edizione Nazionale sezione Moda.

Lui che  ha lasciato l'Italia per seguire un sogno.

Che nel 2009 è partito con uno stand di 1 metro quadrato (un metro quadrato, si) a Union Square per servire caffè espresso e cappuccini insieme all'inseparabile socio e compagno di avventura, Alberto Ghezzi.

Che nel giro di sette anni è passato da uno stand di un metro quadro da dividere in due persone, a una superpotenza con 60 dipendenti e quattro punti vendita a New York, meta di migliaia di clienti tutti i giorni.

Che ha allargato il raggio di impresa a catering, editoria, moda.

Che è diventato un punto di riferimento negli USA.

Che tra i suo clienti ha aziende come Google e Facebook.

Che ai tavolini dei suoi bar siedono Susan Sarandon, Uma Thurman e Al Pacino (per citarne solo alcuni)

Ecco.
Quando si dice la modestia, che è solo dei grandi, quella è di Michele Massari e di Alberto Ghezzi.

E del loro straordinario Piccolo Cafè.




sabato 17 dicembre 2016

La normalità della mafia


 
Vietato entrare alle teste di cazzo.
E' solo un adesivo appiccicato a una porta, ma si fa notare.
E' all'interno di un capannone a Calendasco, in provincia di Piacenza, confiscato alla mafia e consegnato al Comune.
Ci sono stato stamattina. Uno di quei luoghi sospesi nel tempo.
Tutto cristallizzato, il tempo fermo al momento in cui quel luogo è passato di mano, pochi anni fa.
Dall'illegalità, al Comune.
Che ne farà un magazzino per gli attrezzi comunali. E che lo ha già utilizzato coinvolgendo le scuole, in collaborazione con Libera.
Tra le pieghe di questo tempo immobile, un viaggio fotografico nella normalità della mafia.
Perché è questo il vero pericolo.



























giovedì 8 dicembre 2016

Da fuori sembrava così. [L'irrintracciabile laica vocazione del giornalismo]

Questo mio post è mortalmente noioso, da travet della comunicazione.
Davvero solo un tentativo di parziale illuminazione a occhio di bue su un dettaglio infinitesimale - ma importante, per me - che riguarda il tema della comunicazione. Solo per avvisarvi nel caso vogliate leggerlo, ecco.
E, seconda excusatio non petita in due righe, non è un peana a favore di Renzi.
--------

Matteo Renzi, chiudendo il discorso in cui ha annunciato le dimissioni dopo la vittoria del No, ha riservato le ultime parole ai giornalisti. Queste:

"Vi chiedo, nell'ora della post-verità, nell'era in cui in tanti nascondono quella che è la realtà dei fatti, di essere fedeli e degni  interpreti della missione importante che anche voi avete per il vostro Paese e direi per la vostra laica vocazione".

E' un appello intriso di sarcasmo dolente, dai toni amarissimi, diretto a una categoria - quella del giornalismo - con cui la politica, ma più nel dettaglio l'amministrazione pubblica, ha sempre avuto un rapporto tormentato, complicatissimo, tortuoso, diciamo così.
Sullo sfondo, o piuttosto in primo piano, il tema della laicità del giornalismo. Una laicità declinata qui al piano professionale, ma che possiamo provare a proiettare al Paese intero.

Nelle parole di Renzi c'è, evidentemente, l'idea che una quota della narrazione dell'azione di governo - da parte dei media - non sia stata aderente alla realtà delle cose. Con il conseguente tradimento di quella "laica vocazione" che dovrebbe costituire il presupposto della professione.

Prendo ad esempio Renzi solo perché è stato lui a mettere sul tavolo questi elementi. Ma il discorso è del tutto indipendente da lui e da chiunque altro. Ha a che vedere con il giornalismo, la comunicazione, la politica. Fine.

[mozione d'ordine (si dice così mi pare): evitate già a questo punto repliche del tipo "si ma il governo racconta balle", "senti chi parla, proprio la politica che dovrebbe dare l'esempio" ecc ecc. Vorrei veramente mettere a fuoco solo questo aspetto. Poi del resto ne parleremo. Fine della mozione d'ordine]

Sulla natura dello storytelling renziano si è detto molto, ma qui proverei a tenere l'attenzione su un piano più pratico, davvero banalmente pratico credetemi,  lontano da dietrologie et similia. Banalmente sdraiato sulla quotidianità di chi si occupa di giornalismo e comunicazione pubblica. Proprio lì dove nascono le cose, dove i fatti che diventeranno grandi hanno la dimensione iniziale del primo passo, di una cosa ancora amorfa.

Quel che ho visto in 25 anni di lavoro, avendo avuto la possibilità di esperienze professionali su entrambi i fronti - sia nelle redazioni dei giornali, sia negli uffici stampa pubblici, sino all'attuale incarico - è che sono due mondi che usano codici diversi e che proprio - anche in buonafede - non riescono a comunicare.
Anche in buonafede, si. Non spesso, ad onor del vero.
Un aspetto sempre più evidente, quello dell'incomunicabilità,  da quando anche i muri hanno capito che, nel comunicare, conta l'empatia, mica l'ideologia (per fortuna, in un certo senso. Ma con un corollario di conseguenze che, ciao).
E quindi, obbligo di empatia. Con tutti i rischi di sciatteria e "disinformazione per approssimazione e superficialità" annessi.

In questa incomunicabilità, però, ci perdiamo tutti (tranne il populismo che si nutre di informazioni approssimative e ne esce ogni volta sazio, rifocillato).

Sento già il fragore dei vaffa che mi arriveranno, ma la vorrei spiegare con un esempio quasi fisico di ciò che succede quando si lavora in un ente pubblico e ci si occupa di comunicazione, nel momento in cui si costruisce la comunicazione per raccontare ai cittadini un risultato.

La prima scelta è "cosa" comunicare. Su cento cose fatte, si riesce a dare notizia di un decimo. E forse abbondo nella stima.

L'ente pubblico - dal governo centrale sino all'ultima delle commissioni consiliari di un comune - decide di dare notizia di un risultato: un finanziamento, un bando, una legge, un investimento, un progetto. In altri termini, intende dare conto ai cittadini di come risponde al loro mandato. In ultima istanza, di come si spendono i loro soldi. I nostri soldi. I soldi di tutti noi.

Anche il più piccolo dei provvedimenti spesso ha un grado di complessità non proponibile nel circuito dei media generalisti, che devono rispondere ai rispettivi target. Alle loro proprietà, potremmo dire, per dire già qualcosa a proposito della laicità del mestiere.

Nel comunicare ogni risultato, quindi, si sceglie inevitabilmente di ridurne giocoforza la complessità, confezionando la comunicazione già ad uso e consumo dei media con pochi elementi facilmente divulgabili, mantenendo nella narrazione la sostanza del provvedimento.
A questo punto del percorso, tocca ai media, sta a loro.
I media digeriscono queste informazioni passandole tra i filtri dei rispettivi criteri redazionali, lunghezze dei servizi tv, titoli sui giornali ecc, oltre che (o soprattutto per)  i rispettivi riferimenti politici e culturali, arrivando quindi al lettore finale con contenuti che in questa filiera perdono quasi completamente la sostanza originale.
E' una filiera asfissiata progressivamente dall'assenza in campo della laicità dei media, spazzata via dal combinato disposto della ricerca dell'empatia (quanti danni, quanti) e della faticosa corrispondenza ai desiderata dell'editore, portando all'esito di un proliferare di pulpiti che manco nell'enciclopedia delle religioni.
Eppure la laicità sarebbe dietro l'angolo. E non si dovrebbe per forza risolvere nella neutralità, no.
Sarebbe sufficiente - anzi, benvenuta - una dichiarazione di appartenenza. Manifesta. Che si fa pulpito, ma almeno lo dice.
Proprio così, basterebbe una laicità intesa come trasparenza di appartenenza. Una contraddizione in termini, lo so. Un'antinomia paradossale. Ma sempre meglio di niente.
Così, in un Paese che laico non potrà mai essere, almeno un terreno - quello del giornalismo - meriterebbe maggiore cura, diciamo così, evitando la trita pièce di una neutralità od oggettività mai tali.

In questa filiera torbida, la narrazione super partes affoga.

Ci perdono tutti, proprio tutti, perché in una narrazione strumentale (sia nel bene che nel male, sia chiaro, distorcendo la realtà ad uso e consumo sia di supporter che di haters) salta l'appuntamento finale, e cioè la narrazione "oggettiva" di come l'ente pubblico spende i nostri soldi, riservando ai cittadini una verità parziale, spesso distorta.
E considerando che proprio a proposito dell'informazione, Papa Francesco spiega che "la gente ha la tendenza alla malattia della coprofagia" (in sostanza a mangiare la merda, per dirla come va detta), quanto più basso è il livello dell'informazione, tanta più gente avrà la tentazione di sedersi a tavola per un lauto pasto.

Non parlo di propaganda.
Qui non si intende che il giornalismo debba essere piegato alla politica e ai capricci degli amministratori pubblici. Di Minculpop ce n'è stato già uno, e i danni si sentono ancora a quasi un secolo di distanza.
Basterebbe solo la chiarezza delle squadre in campo.

L'anno scorso ho incontrato un collega che per 30 anni ha lavorato in uno dei principali network televisivi del Paese. Personaggio noto insomma. Che poi ha accettato un incarico nell'ambito della comunicazione pubblica. Come direbbero i più cinici, "è passato dall'altra parte".

Quando ci siamo incontrati, gli ho detto scherzando: "Ti sei accorto che per 30 anni non avevi capito un cazzo? Che non ci sono dietrologie, complotti e tutte le altre cazzate che hai detto in tv per tre decenni"?
Non ha neanche tentato di ridere, mi ha guardato con uno sguardo un po' perso e una mano appoggiata alla scrivania e mi ha detto: "Non ne avevo idea. Eppure da fuori sembrava così".

Appunto.
Da fuori.
Sembrava.
La laica vocazione.