venerdì 31 luglio 2015

Il bacio

“Bentornato James. La temperatura dell’appartamento è di 21 gradi Celsius, il tasso di umidità  è del 42%. La vasca ad idromassaggio è pronta, puoi scegliere tra le essenze di muschio norvegese, ylang-ylang, melissa e lavanda. Sono arrivati cinque messaggi di posta elettronica. La segreteria telefonica contiene una chiamata. La senti adesso o preferisci cominciare con l’idromassaggio”?

Bond, stanco e turbato da un pensiero fisso che si arrotolava da un paio di giorni, era stato ad ascoltare senza grande interesse la voce fredda del computer ambientale che lo aveva accolto in casa al suo rientro. Camminando verso lo studio aveva gettato la giacca di lino sopra il divano e poi, con un sospiro sfocato, aveva armeggiato intorno al colletto della camicia per sbrogliare il nodo della cravatta che per tutto il giorno gli aveva dato una sensazione nera di strangolamento. 

Il sistema d’allarme centrale aveva letto l’iride di Bond al suo ingresso e un rilevatore chimico diffuso nell’ambiente aveva riconosciuto il Ph della sua pelle, identificandolo senza possibilità di errore.  007 aveva così potuto togliere dalla fondina la Walther ppk 7.65 senza il timore che il sistema d’allarme, rilevando un’arma non identificata nel suo appartamento,  potesse bloccare porte e finestre, attivando l’atroce “Killing me softly”, una pioggia di polimeri liquidi dal soffitto che avrebbe liquefatto in pochi minuti un eventuale incauto intruso. Dopo un silenzio assoluto di circa quindici secondi al centro della stanza, aveva pronunciato con tono uniforme la sequenza di numeri 30011965. 

Il Rolex Submariner 6538, apparentemente un orologio soltanto un po’ vistoso, solo a quel punto si era sganciato dal polso sinistro e 007 lo aveva potuto togliere. Con delicatezza lo aveva posato sulla scrivania  e lo aveva connesso al computer attraverso una porta ad infrarossi. 

Rapidamente il Submariner aveva trasmesso al computer i filmati delle persone che erano entrate nel campo visivo di Bond durante il giorno. Il computer, collegato alla banca dati del servizio segreto di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra, aveva digerito pigramente le immagini assegnando ad ogni volto i dati anagrafici, cartella clinica aggiornata in tempo reale, cenni biografici, cartella esattoriale, affiliazione a movimenti, partiti e associazioni e - escludendo la morte accidentale - anche la data presunta del decesso e la causa. Di ogni persona incrociata anche solo per caso, 007 era quindi in grado di sapere ogni cosa. Solo un viso, tra i mille visti quel giorno, lo aveva messo in difficoltà. E la sensazione legata a quel viso così pericolosamente affascinante, gli aveva abbattuto l’umore sin sotto i tacchi, sprofondandolo in un presentimento di abbandono che non lo aiutava affatto a riprendere forza.

Seduto sul letto, si era chinato appena per sfilare le scarpe, sbuffando impercettibilmente per lo sforzo di quel gesto familiare. In rapida sequenza erano volati sul tappeto anche i calzini, i pantaloni e la camicia. James Bond era rimasto in mutande, steso sul letto a braccia aperte, ad osservare con occhio bollito il lampadario e a muovere piano le dita dei piedi, intorpidite dalla prigionia di un giorno particolarmente lungo e spossante.

Erano tre giorni che Bond rigirava tra le mani la foto del volto seducente di “Ice eyes”, occhi di ghiaccio, un viso di bellezza sudamericana, delicato e da perderci la testa, ma a cui i servizi segreti britannici non riuscivano a dare un nome, nemmeno con l’aiuto delle sconfinate banche dati. E anche quel giorno l’esito era stato negativo, quel viso osservato ossessivamente da giorni in fotografia non corrispondeva a nessuna persona nota. 

Si sapeva però, in contrasto con lo charme di quella creatura angelica in grado di spezzare i cuori più granitici, che Ice eyes veniva dall’Argentina e che era una pedina – bellissima - di un trafficante d’armi del cartello dei colombiani che tentava di introdurre in Gran Bretagna il materiale per la costruzione di una bomba sporca, un ordigno nucleare fatto in casa, sufficiente a radere al suolo la capitale. Non c’erano però elementi ufficiali di alcuni tipo a suo carico, e non si poteva procedere all’arresto in nessun modo, ma proprio nessuno. 

Abituato a resistere al fascino di donne addestrate a sedurre con ogni mezzo, Bond sentiva che questa volta sarebbe stato immensamente più complicato e si stupiva del fatto che nessuna donna fosse mai riuscita a fare breccia nel suo cuore in un modo così devastante. Con Ice eyes il muro di resistenza che di solito opponeva al fascino femminile sarebbe potuto crollare, mandando a gambe all’aria lui, il servizio segreto di sua Maestà e la città intera.

Appesantito da dubbi sempre più profondi, Bond cercava sollazzo nel formicolio dei piedi che poco alla volta ritrovavano la pace dei sensi, ma era un esercizio inutile. 007 rigirava tra le mani la foto di Ice eyes e ancora una volta si scopriva ad ammettere che forse, per la prima volta nella sua carriera, avrebbe dovuto chiedere di essere trasferito ad un’altra operazione, una qualunque, dove non ci fosse il rischio di mettere sul piatto i sentimenti. Inutile nasconderlo: l’innamoramento per quell’angelo, con una grazia assoluta nello sguardo era lì, appena dietro l’angolo, lui sarebbe caduto in quel pozzo profondissimo e Londra sarebbe stata rasa al suolo.

Bond divorava con gli occhi la foto di Ice eyes. Gli occhi azzurrissimi si incastonavano su una meravigliosa carnagione bruna ed erano così grandi che ci si poteva perdere. Il profilo del naso scendeva regolare verso due labbra d’albicocca, schiuse appena, che lasciavano indovinare denti candidi come perle. Gli zigomi, alti e in un moto di riso trattenuto, sembravano appena scolpiti e degradavano morbidi verso due fossette che nascondevano a malapena una felicità smisurata a fior di pelle. Incorniciato in un taglio di capelli corti, neri come il buio, il viso di Ice eyes era un vero e proprio gancio al mento, in grado di mettere K.O. al primo sguardo. 

A compromettere la resistenza di Bond contribuiva anche il fisico di Ice eyes, un corpo meraviglioso limpidamente modellato a suon di diete, tonico e fresco, che trasmetteva la sensazione bruciante di dune in un deserto di sabbia.  Al confronto, le donne che Bond aveva incontrato sino a quel momento avevano il sex-appeal di un manichino della Standa.

Il tormento di 007 era durato fin troppo e così, dopo un’ultima altalena di pensieri, James Bond aveva rotto gli indugi e aveva deciso che, sì, avrebbe rinunciato ad occuparsi del caso di Ice eyes. “Mancano le condizioni di base” – si era detto, ed evidentemente si era piaciuto, gli era sembrata un’argomentazione sufficiente per considerare chiusa la vicenda. Decisamente sollevato, si era alzato dal letto e aveva calzato le pantofole di spugna diretto in bagno con il catalogo Ikea sottobraccio, pronto ad immergersi nella lettura nel corso di quella che si annunciava come una sosta piuttosto lunga ed appagante.

Nel pieno della lettura, sbalordito di fronte all’esiguità dei prezzi della plafoniera Lock e dall’intramontabilità della libreria Billy, 007 era quasi sobbalzato al trillo del cellulare, che si era connesso automaticamente al sistema in vivavoce dell’appartamento.
“Bond”?
“Sono qui M., dimmi”.
“Abbiamo trovato Ice eyes, soggiorna in un albergo a 30 chilometri a nord di Londra”
“Non è più affar mio, non me la sento”.
“Ah, ah, ah. Spiritoso come sempre, Bond. Dicevo, abbiamo individuato l’albergo, la zona è già controllata. Tocca a te”.
“No, davvero M., sono fuori, pensavo di chiamarti appena finito qui per dirtelo”.
“Nuove informazioni in busta chiusa nella solita cassetta di sicurezza. 22 ore all’azione”.

M., il capo di Bond, aveva riattaccato senza dare modo a Bond di spiegare. L’agente segreto aveva richiuso il catalogo premurandosi di fare l’orecchio a pagina 121 e si era infilato sotto una doccia rigenerante per affrontare quella che gli sembrava la missione più azzardata della sua vita. Indossati abiti anonimi, 007 era uscito di casa e aveva raggiunto rapidamente il caveau dell’ufficio postale che custodiva un’impressionante schiera metallica di cassette postali, tra cui quella di Mr. John McCartney, nome di copertura che 007 si era dato in onore di una lunga amicizia con un quartetto di voci bianche di Liverpool.

Bond aveva ritirato una busta gialla e ne aveva estratto la lettera contenuta, leggendo con angoscia crescente le righe stampate su carta bianca. Il messaggio, a spanne, era questo:
Ice eyes soggiornava in un albergo nella zona dell’aeroporto Luton, a più di trenta chilometri a nord di Londra. Nei giorni precedenti qualcuno aveva sicuramente già piazzato la bomba sporca in una zona del centro di Londra che - per il momento - non era ancora stata individuata. Ulteriore elemento: Ice eyes sapeva di essere sotto controllo da qualche giorno, perciò si muoveva alla luce del sole, esattamente come chi non ha niente da nascondere, ben consapevole che una macchina fotografica raggranellava centinaia di fotografie in sequenza continua.
Si sapeva anche che l’esplosione sarebbe avvenuta tra le 10,58 e le 11,01 di giovedì 22 settembre. Era una finestra di tre minuti, al di fuori della quale la bomba si sarebbe disattivata automaticamente. Nella programmazione dell’esplosione, infatti, i colombiani avevano preteso la certezza di potere recuperare la bomba se qualcosa fosse andato storto, dando al massimo un intervallo di tre minuti per l’esplosione, trascorsi i quali l’ordigno sarebbe tornato a dormire fino a quando un uomo di fiducia l’avrebbe recuperata e riprogrammata per una nuova occasione.

L’innesco – e questa era la parte più impressionante - sarebbe stato dato con un bacio. Un premolare di Ice eyes conteneva il chip che avrebbe dato l’ok alla detonazione, ma si sarebbe innescata solo con la sintesi chimica di due tipi di saliva, quella di Ice eyes e quella di una seconda persona. La saliva non poteva essere conservata o riprodotta sinteticamente, doveva garantire tutti i parametri organici di saliva vera e propria, dalla temperatura sino al grado basico-alcalino. In soldoni – continuava la lettera – ci doveva essere un bacio vero e proprio.

La consapevolezza di essere sotto la lente dei servizi segreti, aveva spinto Ice Eyes a non utilizzare nessuna persona nota alla polizia per il bacio-miccia, né di tentare alcun approccio con residenti della zona, anche perché per funzionare il bacio sarebbe dovuto durare almeno 45 secondi e sarebbe stato impossibile estorcere un bacio a qualcuno per un tempo così lungo. In qualche modo –proseguiva la lettera - in Ice eyes c’era però l’assoluta certezza che nella finestra utile di quei tre minuti qualcuno avrebbe sicuramente bussato alla sua porta e non avrebbe resistito alla tentazione di un bacio, dando il via all’esplosione. Bond, vestito da cameriere, secondo le istruzioni avrebbe dovuto bussare alla porta di Ice eyes alle 10,57, un minuto prima che iniziasse la finestra dei tre minuti utili, blaterando qualche cosa a proposito della stanza da risistemare o della cena che sarebbe stata servita un po’ più tardi. Avrebbe insomma trovato il modo di far passare quei tre minuti, salvando Londra dall’apocalisse.

007 aveva trovato la proposta ragionevole e il mattino seguente si era recato all’albergo di Luton, requisito nella più assoluta discrezione da parte di una decina di agenti dei servizi segreti, che avevano sostituito il personale senza dare nell’occhio.
“Non so se potrò resistere all’idea di un bacio”, aveva detto serio Bond agli agenti, che però – per pura cortesia - avevano riso come ad una battuta stantìa.
Alle 10,57, con pantaloni neri e giacca bianca con spalline dorate, 007 aveva percorso i pochi metri sul tappeto verde del corridoio al primo piano e aveva bussato con una certa energia alla porta della camera 149. Dall’interno si era sentito il rumore di passi regolari, poi la porta si era aperta e Bond era quasi svenuto, barcollando sulle scarpe lucide.

Ice eyes, che già in foto lo aveva tramortito, su quella porta lo aveva sciolto, togliendogli ogni residuo di ritegno e di pudore, con una sensazione di regressione repentina che lo aveva portato all’estasi di una cotta provata durante gli anni delle scuole superiori.

Ice eyes aveva fissato gli occhi di Bond e aveva sgranato un sorriso inebriante che aveva tolto a 007 ogni possibilità di resistere. Il braccio di Ice eyes si era allungato sulla spalla di Bond e la mano era scivolata piano sulla nuca, in una carezza morbida che aveva disattivato tutti i sistemi d’allarme dell’agente 007. Le labbra di Ice eyes si erano appoggiate piano alla guancia tenera di James Bond. Senza fretta, quelle labbra si erano spostate sul mento, poi sul collo, fino ad incontrare altre labbra, quelle adorabili di 007, che non aveva opposto resistenza.


Quel bacio, il primo che James Bond nella sua vita avesse dato a un maschio, era stato accompagnato dal boato sordo di un’esplosione distante e a 007 era sembrato, a ben vedere, un effetto sonoro degno della passione di quel momento.

venerdì 10 luglio 2015

Lasciate morire il piccolo Marco


Non si sopravvive alla morte dei figli. Si aspetta solo di morire. E nel frattempo si muore dentro. Tutti i genitori sanno che è così.
Ma il piccolo Marco, 4 anni, caduto nella tromba di un ascensore nella metro di Roma, non è ancora morto. Lo trattengono qui, in un modo che annichilisce l'animo, le parole di Roberta Lombardi, la deputata del Movimento 5 Stelle che ieri, a pochi minuti dalla tragedia - una tragedia immane, inimmaginabile per la vastità del dolore - già distribuiva le colpe a destra e a manca, a Alemanno e a Marino, agli avversari politici, colpevoli del degrado di Roma, di cui l'incidente dell'ascensore sarebbe il paradigma. Lo faceva dal buco della serratura di Facebook, vomitando un giudizio gelido mentre il corpo di Marco era ancora caldo e straziato dal volo.
E in quelle parole così povere d'animo, così sature di indifferenza, che si affacciano su un abisso di cinismo nero, Marco non riesce ad andarsene. Non riesce ad andarsene accompagnato dal dolore incolmabile della mamma, del papà. No, rimane qui, trattenuto dalla merda del dibattito pubblico, che lo trasforma in fantoccio politico, sbattuto qua e là come oggetto del contendere, facendolo cadere in quella tromba dell'ascensore ancora una volta, e un'altra, e poi ancora, ancora, ancora, fino a svuotare quel corpo del diritto di un dolore privato, restituendolo alle pagine di Facebook come manichino su cui esercitare l'esercizio del consenso.