sabato 5 luglio 2014

La formazione per i giornalisti è uno psicofarmaco

Non è vero che la formazione obbligatoria per i giornalisti sia inutile, al contrario: favorisce la creatività, stimola la socievolezza, potenzia la fantasia. Una specie di antibiotico, insomma. O uno psicofarmaco di quelli leggeri, per stabilizzare l’umore.
Su di me, almeno, ha avuto questo effetto.

Pochi giorni fa, finalmente conquistato il diritto a partecipare a uno dei corsi (obbligatori) sul tema “I giornalisti e la deontologia”, raggiungo felicemente dopo circa 100 km di viaggio il palazzo in cui, dalle 10 alle 18, ci illumineranno sul tema. 

A casa le mie figlie mi hanno salutato per sempre, sanno che il rischio della giornata di formazione è mortale. Ma io non mi tiro indietro: la formazione prima di tutto. Le saluto mentre asciugo le lacrime sui loro volti.

Sarà compito di tre relatori traghettarci – sani e formati – al tardo pomeriggio. Mi guardo intorno e, inspiegabilmente, nessuno fa la ola di fronte al menù che ci attende:

  1. La legge del 1963 e l’art. 2 - Il primo protocollo e le successive carte deontologiche - Il codice della privacy
  2. La procedura disciplinare alla luce del DPR 137/2012
  3. Social network e riflessi deontologici
L’aula è stracolma, almeno trenta di noi non trovano posto. Ma niente ci fermerà: sulla parete di fondo dell’aula ci sono due porte che immettono in una stanza attigua: ci stivano lì dentro. Si, è vero, da lì non si vede il relatore e si sente anche male. L’umidità è al 100%. Ma non ci fermeranno certo questi dettagli, siamo pronti a introiettare il nostro carico di deontologia, niente ci può spaventare.

Il primo relatore è pronto, sfoggia una metodologia formativa di grande impatto innovativo: “Uomo-in-piedi-con-microfono-che-parla”.
Alle 10 esatte inizia, è bravo. Dalla nostra stanza non lo vediamo, ma lo sentiamo. Apro i pori per assorbire più deontologia possibile, lo sento citare Mussolini, De Gasperi, una serie di leggi e di regolamenti. Sento il discorso volare alto sulla quotidianità del 2014 quando cita il “cinematografo”. La contemporaneità dilaga, si parla dei film di Totò, dei delitti della saponificatrice di Correggio degli anni ’40, del senso del pudore di Maria Goretti nel 1902.

La deontologia mi entra in circolo, comincio a sentirne i benefici, anche se dopo un po’ di tempo inizio ad avvertire l’affaticamento, la spossatezza, quasi lo sfinimento della giornata. La formazione prosegue a lungo, ci immergiamo nelle cronache del secondo dopoguerra, sentiamo qualche incursione negli anni ’60, si citano codici, leggi, processi e cause giudiziarie, ma io spero che la pausa pranzo sia ormai vicinissima, perché comincio ad essere tramortito. 
Guardo l’orologio: sono le 10 e 8 minuti.
Penso di morire. 

E’ lì che sento il coperchio di marmo della tomba che cala su di me e sull’impossibilità di sopravvivere alla giornata.
Mi giro verso la mia occasionale vicina di sedia e la guardo smarrito: “C’è da spararsi”, le dico. Ride. “Si, non volevo dirlo. Ma si, c’è da spararsi”.
Ci guardiamo intorno e capiamo che le intenzioni suicide hanno colpito tutti i presenti nella stanzetta. Sarà per questo, immagino, che hanno reagito con i farmaci tipici per queste situazioni: lettura di quotidiani e settimanali, navigazione web sistematica su tablet, iPad e smartphone, musica in cuffia e passeggiatine corroboranti verso le finestre per respirare un po’ d’ossigeno. 

Anche l’ordine teutonico delle sedie affiancate, poco alla volta, si sfalda per ricomporsi in micro-salotti in cerchio, accrocchi di reporter e piccole tribù di cronisti, tutti impegnati in chiacchiere ritempranti.
Sul tavolone al centro della stanza si moltiplicano quotidiani e settimanali a disposizione di tutti, estratti da borse e zainetti, una sorta di edicola a cielo aperto per tenersi impegnati fino alla pausa pranzo. 

Io raggiungo il livello 81 a Bubble Maniac sul mio smartphone e mi sento ormai pronto a passare  alla versione “advanced”, ma la pausa pranzo arriva proprio quando il livello 82 è a portata di mano.
Sparsi come una mandria, ci infiliamo nei bar della zona, ripresentandoci alle due, pronti per un nuovo carico di deontologia. La differenza, rispetto al mattino, è nella metodologia, che si alza a livello “donna-seduta-con-microfono-e-slide-di-solo-testo”, applicata dalle due relatrici pomeridiane.

La mazzata, considerato l’orario della digestione, è ancor più potente di quella mattutina, ma niente ci può scoraggiare e le discussioni – nell’anarchia della stanzetta – vanno dalle gambe pelose di un tizio postate su facebook, sino all’educazione dei figli.
Più d’uno, verso le cinque, improvvisamente alza la testa e la gira in direzione della voce che arriva dall’altra parte della stanza. Pare che sia stata pronunciata la frase “e per finire”.

Ed è proprio così.
E’ finita.
Siamo sopravvissuti e ne usciamo deontologicamente formati.

Mi consegnano il diploma, lo giro verso la platea dei colleghi e lo alzo al cielo come un trofeo: il giornalismo è raccontare i fatti.