mercoledì 27 agosto 2014

L'abisso della vecchiaia nella lezione di Massimo Fini

Qualche giorno fa Davide, in vista di un lavoro che faremo, mi ha suggerito di leggere "Ragazzo. Storia di una vecchiaia", di Massimo Fini.
Nella quarta di copertina si spiega esattamente cosa ci si deve attendere dalle 111 pagine, tra le più fulminanti che io abbia mai letto: "Una spietata analisi, senza infingimenti, senza autoillusioni, senza autoinganni sulla vecchiaia, al di là delle ipocrisie e della retorica con cui oggi cerchiamo di abbellire ed edulcorare quella che chiamiamo eufemisticamente "la terza età" rendendola così, se possibile, ancor più crudele e beffarda."
Non posso fare altro che suggerire a mia volta questa lettura - potentissima e lucida fino alla mancanza di speranza - soprattutto a chi è già negli "anta". Non per scoraggiarli, al contrario. Per trovare il coraggio di aprire porte sempre chiuse, dietro le quali Fini - magistrale - ci prende quasi per mano anticipando in un certo senso un viaggio tra i dettagli dell'inevitabile.

Tra le pagine più emozionanti, senz'altro quelle dedicate alla madre.

"La detestavo. Educata all’epoca degli Zar e in quegli ambienti, era una russa dispotica, dura, anaffettiva, completamente priva di capacità autocritica, che si esprimeva per ordini perentori, quasi sempre arbitrari o cervellotici, che non potevano essere in alcun modo discussi. «Fai così». «Perché mamma?». «Perché lo dico io». «Ma spiegamene almeno le ragioni». «Fai così e basta». Mio padre era morto, io ero minorenne e finché vissi a casa sua dovetti subire. Ma una volta, esasperato, la scaraventai per terra e la calpestai. Con voluttà. [...] Un giorno mi telefonarono che era morta. Andai a vederla. La morte le aveva restituito i suoi tratti asiatici, tartari, gli zigomi sporgenti, gli occhi dal taglio obliquo, le labbra sottili, enigmatiche, irrigidite in una piega altera e crudele, come se alla fine della vita si fosse ricongiunta alle sue origini. Era bellissima. Affascinante e terribile, come sempre. Ne fui turbato. La morte di una madre, quali che siano stati i nostri rapporti con lei, è sempre traumatica. Ci rendiamo conto che sono stati tagliati anche gli ultimi ormeggi che ci legavano alla sponda da cui eravamo partiti. Che ora siamo definitivamente in mare aperto e che tocca a noi.
Lei era un’ebrea convertita alla religione ortodossa, in realtà non credeva a nulla, né a Dio né a Satana. Le organizzai comunque un piccolo funerale ortodosso, che è una cosa semplice e serena. Si tengono in mano delle candeline colorate, accese, e chi ci crede prega per l’anima del defunto. Avrei dovuto dire qualche parola di commiato ai pochi amici e conoscenti presenti. Non intendevo in alcun modo nascondere i difficilissimi rapporti che avevo avuto con mia madre, volevo però ricordarne il coraggio. Era passata, nel giro di pochissimi anni, dal Medioevo alla Modernità, dalla grande ricchezza della nobiltà terriera zarista alla miseria e alle devastanti carestie della Russia postrivoluzionaria e, in seguito, fuggita dal suo paese, alla povertà bohémienne della Parigi degli anni Trenta, aveva attraversato rivoluzioni e guerre, conosciuto tragedie collettive e individuali, un fratellino ucciso durante i tumulti bolscevichi, l’intera famiglia d’origine sterminata dai tedeschi, una figlia le era morta a pochi giorni dal parto, l’altra era impazzita in età adulta. Era comprensibile che fosse stata costretta a farsi una scorza dura. E aveva affrontato tutto, i momenti tragici e quelli felici, perché in un continuo saliscendi c’erano stati gli uni e gli altri, con dignità, con fierezza e, appunto, con grande coraggio. Quel coraggio che le ho sempre ammirato, temendo di non averne altrettanto. Ma quando fui davanti alla bara le parole mi si gelarono in bocca e non riuscii a dir nulla. Pensavo che mia madre mi fosse ormai del tutto indifferente. Anzi, per tutta la vita avevo creduto di odiarla. Capivo, ora, che, a modo mio, che poi era molto simile al suo, l’avevo amata. Certamente più di mio padre, troppo razionale, troppo valoriale, troppo ottocentesco e distante come lo erano spesso i padri della mia generazione. Lei, perlomeno, era preottocentesca, era feudale. Era barbara. Era selvaggia."

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