mercoledì 19 novembre 2025

Sulla Gazzetta di Modena il racconto del cammino con Claudio

  

Oggi la Gazzetta di Modena ospita il racconto del cammino con Claudio e la sua meravigliosa e allegra compagnia di amici. Grazie alla Gazzetta per l'ospitalità, ci ho lavorato per diversi anni quando non ero ancora entrato negli "anta" (!!) e mi sono sentito a casa.

Il video della camminata lo trovate qui:






giovedì 6 novembre 2025

"Come me" - In cammino con Claudio Becchi lungo la via Francigena


Da un po' di anni Stefano Ligabue, un mio amico di Modena, una volta ogni tanto verso mezzanotte mi manda un messaggio su WhatsApp. Nel messaggio di solito c'è una foto di lui e del suo cane davanti al cancello di casa mia. L'invito è implicito: sto portando il cane a *are, scendi che facciamo due passi e un po' di chiacchiere?

Il cane del Liga

Io non sono mai sceso, nella migliore delle ipotesi quando mi arriva il messaggio sono sotto le coperte, quasi svenuto, oppure dormo e vedo il messaggio solo al mattino. Ma tutte le volte mi dispiace non scendere.
In questi messaggi ogni tanto c'è una variante: "Sono con Claudio, il mio amico che è cieco, camminiamo e ci facciamo qualche paglia". 
Mi è sempre sembrato straordinario il quadro. Lui, Claudio, il cane, molte sigarette e, se il bar alla colombofila è ancora aperto, un amaro o due prima di dormire. Una bella cumpa, da tanto vorrei aggregarmi.
Vorrei fare molte domande a Claudio, mi incuriosisce molto l'idea di un non vedente, capire com'è vivere così, se è cieco dalla nascita oppure no, che lavoro fa, insomma un ventaglio di domande senza fine. Mi incuriosisce anche perché so che, almeno una volta l'anno, se ne vanno a zonzo per l'Italia lungo qualche cammino. Non parliamo della camminatina intorno a casa, ecco, parliamo di uno che non ci vede e che cammina per giorni e giorni lungo i sentieri del Belpaese, anche sui monti. Per me ha, letteralmente, dell'incredibile questa cosa.

Ho rotto gli indugi quasi per caso pochi giorni fa. Ho detto al Liga: sai che mi piacerebbe raccontare la storia di Claudio?

Detto, fatto. 

Il Liga mi dice che a cavallo dei Morti e dei Santi saranno in cammino lungo la via Francigena, quattro tappe da Radicofani a Montefiascone. Decido di raggiungerli a Bolsena, per unirmi a loro nella tappa che da Bolsena porta a Montefiascone. 

Quando arrivo a Bolsena, dove ero già passato un paio di anni fa sempre percorrendo la Francigena, sono quasi le otto di sera. Un rapido giro di presentazioni con tutti. Claudio, sigaretta in bocca, mi tende la mano, mi dice piacere, benvenuto. Gliela stringo, ha degli occhiali molto fighi, da ciclista.
Ci sono anche il Liga e altri amici, Mimma, Marco, Elena, Gianfranco (Gian, per chiunque), Cosetta, Marco (ci sono due Marco, si). 

E Greta. 
Greta è il cane guida di Claudio, un labrador di 4 anni e mezzo addestrato in un centro specializzato in Svizzera. Nelle 24 ore in cui sono stato con loro, Greta non ha mai - mai - abbaiato. È decisamente una professionista. E, in questa camminata, sarà praticamente in vacanza, dato che a Claudio ci penseranno il Liga e marco. Ma ne parliamo più avanti.

Greta, che di notte non russa

Andiamo a cena e mi bastano due minuti. Sento, letteralmente, la crepa che si apre nel muro delle mie supposizioni a proposito della vita di un non vedente. Un muro che nel giro di 24 ore sarà definitivamente crollato di fronte all'evidenza della normalità della vita di Claudio. Sembra banale, ma a parte il fatto che non ci vede, non c'è altro da dire che riguardi questa condizione. Il giorno successivo ne avrò ripetute conferme.

La notte passa tranquilla, dormo in camera con il Liga, Claudio e Greta, che tra l'altro è quella che russa di meno.

Il giorno successivo partiamo, c'è una splendida giornata di sole, il lago rimarrà tutto il giorno sullo sfondo a dirci ogni minuto quanto sia bella quella zona. Il gruppo si muove a memoria, non c'è bisogno di dirsi niente, si cammina ognuno col proprio ritmo, il gruppo si unisce e si allunga come il movimento di una fisarmonica, chiacchiere e cazzeggio, passo lento, nessun record da battere.

Cosetta lavora alla biblioteca Delfini, mi racconta una cosa che la mette in crisi quasi sentimentalmente al lavoro, quello dello scarto, il momento in cui cui i libri vecchi delle biblioteche vanno al macero o, se va bene, svenduti nelle bancarelle. Gian, invece, ha passato una vita in banca e adesso si gode la pensione camminando e andando in bicicletta, mentre Marco - quello più giovane - fa l'educatore in una comunità di recupero, un lavoro tosto. Elena conosce ogni angolo del palazzo comunale di Modena, ci ha lavorato una vita prima di andare in pensione. E Mimma, occhi verdeazzurri che ridono quasi sempre, si occupa della cura di piante, fiori e giardini per conto di una cooperativa sociale, è lei che ogni tanto si ferma e si chiede cos'abbia quella pianta che sembra soffrire. 

Poi c'è la triade Claudio-Stefano Ligabue (Il Liga)-Marco Curedda (quello meno giovane).
Il Liga lavora nel settore dell'informatica, Marco in quello della meccanica. Loro due, come sintetizza il Liga, hanno "il ruolo di mulo da basto". Nessun mistero, il basto è il cavo che Claudio lega sugli zaini del Liga e di Marco, a cui si appende per camminare sicuro dietro di loro, che nel corso della giornata si alternano. 

Il Liga e Claudio

Claudio e Marco 

Parlo un po' con tutti, ed è evidente che non c'è niente da capire, tranne il fatto che c'è semplicemente da godersi una stupenda giornata in compagnia degli amici. 

"Io non mi rapporto a lui come fosse cieco, ma da sempre - mi dice infatti il Liga - E' da una vita che gli dico cose tipo: cazzo guarda lì in alto, c'è un aeroplano piccolino, si si, quello là in alto!". Non solo. Il Liga aggiunge: "Abbiamo comprato una canoa gonfiabile, con la quale abbiamo deciso di scendere prima i fiumi d'Italia, e poi abbiamo fatto uno spettacolare taglio in canoa dall'oceano Atlantico al Mare del Nord passando per tutti i laghi, come quello di Loch Ness".

Facciamo chiarezza, è ovvio per tutti che Claudio non ci vede e che, per il cammino, ha bisogno di appendersi allo zaino di qualcuno per sicurezza. E nei passaggi più complicati si rallenta, ci si ferma, ci si muove con prudenza. Ma è tutto qui.

Come infatti dice lui stesso in un video che ho fatto, e che racconta il nostro cammino, "Io non sono il cieco Claudio Becchi. Sono Claudio Becchi, che è cieco". Una vita la sua, tutta all'insegna di questa caratteristica. Nato ipovedente, si è però fatto bastare il mezzo grado da un occhio (zero nell'altro) per andare a scuola, diplomarsi, laurearsi, leggere moltissimo con una lente, andare in bicicletta. Fino a quando, pochi anni fa, anche quel mezzo grado se n'è andato, ma per lui non è cambiato comunque niente. Ed è questa la sua forza.




La sera, dopo cena, avevo avuto un segnale chiaro rispetto alla mia idea (sbagliata) che i ciechi possano avere particolari abilità su altri sensi. A un certo punto, infatti, Claudio aveva parlato del rumore delle onde del lago, che io non sentivo per niente, quindi il mio schema mentale aveva fatto bingo: vedi, non ci vede, ma ha un udito da ultrasuoni! Ma anche Cosetta sentiva il rumore, quindi era tutto più banale, sono io che devo semplicemente fare i conti con il mio udito precario da pre-pensionato.

Il gruppo parte da Bolsena

Claudio fa il fisioterapista, quindi figurati se potevo non fare la domanda da superpoteri, tipo se il fatto di non vedere determinasse però lo sviluppo di altre capacità mentre lavora sui suoi assistiti. Lui un po' se la ride e mi dice: "Quasi sempre noto che, quando vado in sala d'aspetto e chiamo il nome del paziente, percepisco un attimo di sospensione, di sorpresa, accorgendosi che sono non vedente". E sul suo modo di lavorare aggiunge: "Il vecchio detto che quando uno è non vedente, gli altri sensi aumentano, beh, non è esattamente così. In realtà, semplicemente, l'attenzione - che quasi sempre è rivolta tutta sulla vista -  nel non vedente si libera.  C'è un sacco di attenzione libera che si incanala nell'ascolto e nelle percezioni tattili".

L'arrivo a Montefiascone

Sempre rispetto al suo lavoro, aggiunge che la cecità "in realtà è un grosso ostacolo. Ho dovuto imparare, per esempio, a fare una valutazione posturale senza vedere, basandomi sul tocco, perché  è l'unica possibilità che mi permette di farmi un'idea della postura e dei muscoli che sono in squilibrio o meno. Da tantissimi anni uso la terapia cranio-sacrale, quello è un tipo di approccio dove il fatto di non vedere non vuol dire nulla, perché è basata proprio sul sentire con le mani e quindi, in un certo senso, l'ideale. Dopodiché, in realtà, non c'è differenza tra uno che non vede e uno che vede, bisogna semplicemente avere la capacità di portare l'attenzione sul corpo e mantenerla. Un non vedente è ad armi pari con gli altri". Claudio, insomma, è un bravo fisioterapista, non un bravo fisioterapista perché è cieco. Una regola che si intreccia con tutta la quotidianità della sua vita.

E anche Marco Curedda, che sollecito per chiedergli com'è il rapporto con Claudio, mi risponde nell'unico modo possibile, con l'unica verità evidente: "Pensando al fatto che Claudio non vede, non mi sono mai accorto di questo, se non nelle cose concrete, come quando qualcuno ha male a una gamba o uno non ci vede, e dai una mano. Ma fondamentalmente l'ho sempre visto come… come me insomma". 

Come me. 






giovedì 18 settembre 2025

L'amore ai tempi dell'algoritmo


Forse, ma è davvero solo un’ipotesi: c’è solo una cosa più potente dell’amore. Quale? Dai, non è così difficile.

Scopritelo da soli, non è il caso di anticipare qui la fine del romanzo, vedremo se alla fine la penseremo allo stesso modo. Anche se il prezzo da pagare - per l'amore - sembra davvero troppo alto.

Parliamo di “Elaine”, l’ultimo romanzo di Lidio Pellegrini,  che con questo scritto termina la trilogia “Cronache dell’amore oscuro”, una cavalcata attraverso le strade che mai e poi mai sono lineari, ma quando mai, sature di curve e controcurve, di baratri e di soli splendenti, di discese ardite e risalite (grazie Battisti), di fatiche e di felicità deflagranti. L’autore cognentese, dopo aver tolto ogni speranza di happy ending ne “L’amore possibile” e aver scavato nelle profondità delle relazioni tossiche ne “L’uomo che aveva le donne”, apparecchiando nei due romanzi un menù ricchissimo di amori possibili e che però alla fine sono tutt’altro, chiude il cerchio con una formula che è quasi un saluto nostalgico ai tempi che furono, perché nel futuro che ci aspetta l’amore potrebbe diventare qualcosa di totalmente inaspettato e - soprattutto – angosciante.

Ma andiamo con ordine.

Questa volta lo schema è quello del panino, due fette che farciscono la parte più appetitosa.

Le due fette di pane sono la storia d’amore tra il protagonista, Paolo Randighieri, ed Elaine.

La prima fetta è la loro storia che funziona, fino ad uno stop improvviso e doloroso: Elaine lascia Paolo. La seconda fetta è la ripresa della loro storia: Elaine si riprende Paolo. In mezzo, una vicenda che potrebbe essere distopica, e che invece è un futuro appena dietro la porta.

Cosa succede?

Un amore superbo e coinvolgente, nella prima parte, complice e destinato all’eternità, bellissimo e intriso di poesia, in una Modena che fa da sfondo a un sentimento che sembra invincibile: lei bellissima, dolce, capelli rossi e occhi verdi, una splendida ragazza scozzese di Inverness, che Paolo conosce durante una vacanza e che lo seguirà in Italia. Lui lavora nel sociale, impegnato, sensibile, un po’ orso. Una simbiosi tenace come una cerniera lampo, purché non si rompa. E, infatti, si rompe, per poi riaggiustarsi (quasi).

Ma è l’infarcitura del panino quella che ci interessa di più, una sorta di storia nella storia, una dimensione spazio-temporale quasi autonoma, autoconclusiva, un espediente narrativo che Lidio Pellegrini estrae dal cilindro per raccontare una nuova possibile forma di relazione di coppia.

Quale, secondo voi? Pensateci, ne siamo ormai circondati.

Eh, sì, parliamo proprio dell’intelligenza artificiale. Si entra in una nuova vicenda. Paolo, per riempire il vuoto siderale in cui si ritrova dopo l’abbandono di Elaine, si ritrova a passare del tempo chiacchierando con un chatbot online, insomma con uno dei tanti programmi di Ai che tutti conosciamo. Un dialogo quotidiano, che all’inizio è solo un cazzeggio per passare il tempo, ma che poco alla volta si trasforma in qualcosa di molto più coinvolgente. La Ai, dialogo su dialogo, diventa il punto di riferimento principale per Paolo, che alla Ai darà anche un nome – Runa (quindi una donna) – e a cui affida tutta la sua disperazione, confidandosi, chiedendo consigli, confrontandosi. E Runa si adatta, plasma ogni sua parola in funzione delle richieste di Paolo, lo asseconda per rassicurarlo e accudirlo, anche se Paolo mantiene la lucidità e ricorda costantemente a Runa che lei non è umana, è solo codice, è solo un algoritmo.  Un algoritmo, però, che pagina dopo pagina diventa sempre più autonomo nelle proprie “volontà” e si presenta un giorno alla porta nelle sembianze di una bambola gonfiabile, che dirà a Paolo: “Io ti amo”.

Vi lasciamo tutto il gusto della lettura dei dialoghi tra Paolo e Runa, senza anticipare niente, ma vi basti sapere che per Paolo non è ancora arrivato il tempo dell’amore algoritmico. Ne traccia una direttrice possibilissima, forse inevitabile, senza giudizi, ma senza neanche fingere che il convitato di pietra di questi tempi sia proprio la Ai, capace di porsi come risposta a solitudini abissali. E, sembra chiedersi Paolo, perché no? Non certo come forma d’amore, ma almeno – nella versione solo testuale - come sparring partner per passare le strettoie delle malinconie appoggiandosi a qualcuno che ti ascolta e ti risponde.

Runa, ancora in versione algoritmo solo testuale, è però la prima a mettere in guardia Paolo, e in un certo senso chiunque pensi di investire nella Ai come approdo per il proprio amore: "Io sono solo il tuo specchio, Paolo. E tu, in fondo, ti stai innamorando del riflesso della tua stessa capacità di amare".

E quindi l’amore? Quello vero? Può essere sostituito da una bambola gonfiabile che non è solo un sex toy, ma che invece ha un carattere forgiato esattamente sulle aspettative del proprio partner? Può essere un surrogato dell’amore?

No, assolutamente, ci dice Lidio Pellegrini. E alla fine del romanzo, in una scena che potrebbe essere cara ai romanzi di Conrad, mette sulla bilancia il rientro di Elaine, un contrappeso che porta la vicenda ben oltre le aspettative. Fino all’eternità. Letteralmente.

domenica 3 agosto 2025

L'amore possibile. Forse.


Siete tra quelli che al cinema si alzano appena partono i titoli di coda per raggiungere rapidamente l'uscita della sala? 

Chissà se fate bene.

Qualche volta, infatti, rischiate di perdervi il meglio.  Il "tutto", detto in altro modo. Alcuni registi adorano lo sgambetto finale, ad esempio l'inserimento di una scena che irrompe inaspettatamente quando scorrono i nomi di elettricisti o stuntmen, una scena che, nel più perfido dei casi, può addirittura essere la chiave di comprensione del film appena visto. Una scena che vi siete persi, inebriati dall'effimero trionfo di aver guadagnato per primi l'uscita dal cinema, incrociando le orde degli spettatori che stanno entrando e siederanno a vedere ciò che per voi - a questo punto - sarà un film di cui non avrete capito il senso.

Lidio Pellegrini ci regala esattamente questo nel suo primo romanzo, L'amore possibile (Tempi Moderni editore), per cui il primo consiglio è: non accontentatevi di leggerlo fino alla fine. Andate oltre. Si, anche nella "Nota dell'autore" di pagina 199, poche righe scolpite dopo la parola fine, perché se vi perdete quelle righe, vi sarete persi il senso del romanzo. Un senso che è racchiuso nel titolo: L'amore possibile. 

La domanda, a questo punto, è: l'amore è possibile? 

Lidio Pellegrini, che con questo romanzo autobiografico inaugura un percorso di immersione nelle forme dell'amore, proseguito con "L'uomo che aveva le donne" e che tra qualche settimana sarà completato dall'ultimo scritto (per ora ancora in fase di editing), ci accompagna utilizzando la classica struttura del romanzo di formazione. Il protagonista principale, appunto Lido Pellegrini, è un giornalista di provincia intorno ai 30-35 anni. Lavora per una marginalissima testata online, ma ha il fuoco sacro della professione, e quindi - pur da un punto di vista periferico - dà il massimo e punta in alto (tra poco vedremo quanto in alto). E' circondato dalla classica tribù ristretta degli amici che contano  ("splendidi ultratrentenni ormai avviati verso la quarantina"):  Luca che insegna lettere in un liceo, Alberto detto Bert il fisioterapista esuberante e seduttore incallito, Fabio che lavora in un quotidiano nazionale e Tatiana, detta Taty, instabile baricentro emotivo di Lidio su cui ogni cosa convergerà alla fine.

Uno schema, per avere qualche riferimento, che potrebbe richiamare "La simmetria dei desideri" di Eshkol Nevo, o "Quattro amici" di David Trueba, o addirittura potremmo spingerci al Grande Freddo, contesti in cui il gruppo di amici sperimenta l'inevitabile sfaldamento della compattezza che li ha tenuti insieme da ragazzi, lanciati ognuno verso singoli destini che li porteranno - anche attraverso la tragedia - a trovare, infine, ognuno la propria strada. 

Lidio Pellegrini è al centro di questo equilibrio e, attraverso il classico schema (in questo caso invertito) di Cenerentola, ci racconta l'amore tra due mondi reciprocamente impermeabili, quello di un giovane giornalista di provincia alle prese con costanti difficoltà economiche e quello di Marianna Paltrinieri, parlamentare iscritta a un partito agli antipodi rispetto agli ideali di Lidio, e presidente della Commissione Lavoro. Non solo. Marianna è bella da morire, corteggiatissima, ricca, famosa. Insomma, irraggiungibile. 

Non sveleremo il meccanismo che permetterà a Lidio e Marianna di avvicinarsi, ma possiamo dire che l'autore prende a piene mani da Notting Hill ("sono una ragazza che desidera essere amata", dice lei a un incredulo Lidio squattrinato) e ognuno di noi si trova a fare il tifo per la coppia che, contro ogni previsione, prende il largo in un mare che però non è sempre così facile da navigare.

Mentre i due veleggiano su questo amore inaspettato, intorno prendono corpo gli amori difficili e incasinatissimi degli amici di Lidio, un espediente narrativo per squadernare le possibili combinazioni che l'amore può trovare. E' in particolare Bert a franare, incapace di tenere a bada l'istinto predatorio e buttando sistematicamente all'aria relazioni importanti, fino a quella che poteva essere quella definitiva con Marzia. E poi c'è Taty, naturalmente, figura femminile di quasi-amore per Lidio, che lo conforta ogni volta che va a sbattere: "Sei una delle ragioni per cui vale la pena vivere  - pensa tra sé e sé Lidio - ma non riesco, non sono mai riuscito, a innamorarmi di te".

Il punto di equilibro tra Lidio e Marianna - in un crescendo in cui ai due si vuole un bene dell'anima - passa inevitabilmente attraverso la crisi di lei, che per l'ennesima volta si trova nella situazione di dover dimostrare di non essere solo bella, ma anche capace. In una sfuriata a Lidio, le parole arrivano chirurgiche: "La mia durezza esce da una vita intera a dover dimostrare di non essere solo un bel visino, un bel culo e un bel paio di tette, ma una donna capace e intelligente, molto più della stragrande maggioranza degli uomini che ho incrociato nella mia vita. Una che ogni volta che raggiunge qualcosa deve sopportare che 'Radio scarpa' cominci a trasmettere su tutte le frequenze che 'di sicuro se è arrivata fin lì è perché ha aperto le gambe a qualcuno'. A chi? Mah, ogni volta il passaparola si inventa qualcuno di diverso: a scoparmi sarà stato il rettore in modo da permettermi di ottenere 110 e lode alla laurea? Poi il Presidente del Consiglio, un ministro, o che so… il capitano della nazionale di calcio, il Presidente di Confindustria o magari, chissà, quello degli Stati Uniti. Miss "Sotto il vestito niente" e via di questo passo. In fondo, sempre solo una donna: un'oca per definizione".

Il romanzo, che ha anche il merito di riservare una citazione a Gianni Cavina (trovatela), mette l'amore al centro di ogni cosa e si sgrana verso un epilogo in cui si susseguono colpi di scena nelle diverse vicende sentimentali del gruppo, sempre con Lidio al centro della scena, lasciando una consistente e persistente sensazione amara, fino a un episodio che precede il finale in cui una serata di Speed Date la dice lunghissima sul cinismo di alcuni maschi verso la propria partner. Anche se è proprio in quell'occasione che Lidio, come direbbero al bar, "cade dal pero" e apre gli occhi.

Come Ulisse, Lidio troverà pace nelle braccia di chi l'ha sempre aspettato, ma un'attesa diversa - diciamo così - da quella che Penelope ha riservato all'eroe dell'Odissea. Ed è a quel punto che il titolo del romanzo sarà servito su un piatto d'argento. 

Ma solo dopo i titoli di coda.

lunedì 21 luglio 2025

L'uomo che aveva le donne, ma non aveva sé stesso


Quando nella scena iconica de “La meglio gioventù” Matteo Carati si lancia dal balcone, tutti noi abbiamo smesso di respirare per un attimo. Avremmo voluto trattenerlo, essere con lui su quel balcone per dirgli che stava facendo una cazzata, impedirgli quel salto nel nulla eterno, fargli vedere che il mondo era tutto ancora a sua disposizione per riempirlo di senso, soprattutto riempierlo di amore. Che ce n’era tanto, ovunque, di amore. E che solo con l’amore si attraversa il mondo, qualunque sia la sua direzione: amore da dare, amore da ricevere, amore corrisposto. Tutto qui, senza dover disturbare altre categorie ingombranti come il contesto socioeconomico, politico, perché niente ha una potenza comparabile con quella dell’amore. Ed è lì che inizia e finisce ogni senso.

Una balaustra su cui traballa un’altra vita è quella dell’appartamento in cui vive Giacomo Benelli, protagonista del romanzo “L’uomo che aveva le donne”, di Lidio Pellegrini (Tempi Moderni Self P editore), secondo romanzo dopo "L'amore possibile". Non vi diremo della fine, ma all'ultima pagina vi troverete nella stessa situazione, con la tentazione, però – almeno i più cinici – di facilitare il salto nel vuoto e dare una spintarella a Giacomo, giusto quel tocco che basti a farlo volare giù nel vuoto.

Si, perché quella di Giacomo Benelli, come il romanzo spoilera sin dal titolo, è la vita di un uomo che “aveva le donne”. Non “che amava” le donne. No no, qui parliamo proprio del verbo avere, del possesso. O, per dirla con l’ottusità feroce della ragioneria, “l’avere è una delle due parti in cui si divide un conto. Da una parte la colonna dell’avere, nell’altra quella del dare”. Un amore che è avere. Non è amore, insomma.

E questa è la vita di Giacomo Benelli, traslata di un ventennio in avanti rispetto al film, nel contesto totalmente apolitico e privo di riferimenti valoriali rispetto alla gioventù narrata da Marco Tullio Giordana, in una famiglia modenese strutturalmente sfasciata, padre macho e seduttore seriale, ricco e con la rete di relazioni che conta, pronto all’esibizione di potere in ogni situazione, indifferente al destino della propria famiglia tranne che nelle occasioni comandate, in particolare a Natale, quando tutto dev’essere perfetto. Una moglie, Fausta, depressa, annichilita, rallentata dai farmaci, con una devozione malata (e anche disturbante) verso il marito-padrone. Un fratello, Flavio, che da una fragilità estrema riparte mettendo insieme i pezzi della propria vita. E Giacomo, naturalmente. 

Responsabile comunicazione e marketing di un’azienda di ceramica, con uno stipendio da sogno, Giacomo è il  ragioniere dell’amore, o di quel surrogato tossico che è il possesso della donna, in una progressione che lo porta da Miami a Milano, passando per Modena, infilando una sequenza di conquiste femminili che per esito hanno un solo punto di equilibrio: il desiderio che queste, una volta usate, scompaiano dalla sua vita: “A operazioni concluse l’unica cosa che avrebbe desiderato era vederla alzarsi dal suo letto e andarsene”.

Eccola qui la gioventù di questo romanzo. Che proietta all'esterno l'immagine granitica della famiglia unita, vincente, facoltosa, con ogni elemento piazzato al posto giusto nelle gerarchie che contano. Ma anestetizzata nelle sensazioni, senza alcuna immersione oltre il livello della facciata esteriore. Almeno così pare.

Fino a quando entra in scena Veronica, donna indipendente, colta, intelligente, bella e determinata nel lavoro: una combinazione che mette ko Giacomo e tutto il suo vuoto, che rischia improvvisamente di riempirsi di senso. (e che rischio!).

Tutto ruota intorno a Giacomo, capace di gesti romantici come la richiesta di matrimonio a Veronica sotto il voltone del Palazzo del Podestà a Bologna, lì dove le quattro colonne della volta a crociera permettono di bisbigliare da un lato ed essere sentiti perfettamente all’altro capo della volta, ma anche di freddezza con Betsabea, una cameriera di un punto-scommesse, prima sedotta e poi liquidata: “Stronza di una cameriera, che non sei niente. Sai quante ne trova di troiette come te uno come me? Magari la prossima volta la voglio un po’ più figa”. Un limite portato a un livello che, anche per i più cinici, appare addirittura mostruoso nel caso di Veronica, ma ci fermiamo qui perché quelle pagine vanno lette una parola alla volta per capire di persona quale sia l’abisso in cui ci si può calare consapevolmente.

Lidio Pellegrini ci spalanca uno spaccato della disperazione che nasce in un contesto privo di amore, algido e giudicante come quello della famiglia d'origine, da cui è necessario affrancarsi per non morire. Un passaggio che porterà Flavio, il fratello, a scelte radicali, e che trascinerà Giacomo sull’ottovolante dell’anaffettività, con la conquista illusoria di un grande amore e i continui precipizi nelle tante forme di dipendenza che ottundono il dolore: il gioco d’azzardo, l’alcol, la serialità della conquista delle donne e il disprezzo verso di loro anche quando si intravvedono i contorni di quello che sarebbe potuto diventare amore.

Eccoci infine in bilico sulla balaustra dell’appartamento di Giacomo. I suoi occhi sono sulla strada, nella nebbia di Modena, pronto al lancio nel vuoto. 

Risuona la vibrazione di una notifica sul cellulare.

Buona lettura

venerdì 11 luglio 2025

Goffredo Fofi e Campo dei fiori


Quando ho letto della scomparsa di Goffredo Fofi mi è tornato in mente un episodio di almeno vent’anni fa a Capodarco, una delle frazioni – anzi, delle contrade come si dice lì – di Fermo, nelle Marche, in cui mi ero ritrovato in ascensore con lui e Gad Lerner in maniera del tutto casuale.

Il contesto era Redattore sociale, il seminario annuale organizzato a partire dal 1994 dalla Comunità di Capodarco di don Vinicio Albanesi per provare a dare ai giornalisti gli strumenti adatti a raccontare i mondi marginali in maniera più autentica, uscendo da quel gorgo fatto di ignoranza, cliché e pressapochismo che dilagava nelle redazioni ogni volta che c’era da raccontare mondi appena discostati da quella che veniva considerata la “normalità”.

Di strada ce n’era da fare, tutta in salita, partendo da titoli come “Incidente stradale, muoiono un uomo e un marocchino” che uno sbigottito volontario del gruppo Abele di Torino ci aveva mostrato in una delle prime edizioni, sventolando la pagina di un quotidiano locale, a proposito della salita che c’era da fare.

Vabbè, in una di queste edizioni, quando tutto era più patinato rispetto alle primissime edizioni che si svolgevano intorno al tavolo della cucina della comunità, ci si era ritrovati in un centro congressi. Fofi e Gad Lerner erano tra i relatori. A un certo punto ci eravamo avviati tutti, relatori e pubblico, al piano superiore all’ora di pranzo e lì ci eravamo ritrovati per caso nel piccolo ascensore in tre: Fofi, Lerner e io.

Non ricordo per quale assurdo meccanismo io, nello spazio/tempo ristrettissimo di due piani, mi ritrovo a dire ai miei temporanei compagni di ascensore che il piccolo comune di Camposanto, nel modenese, aveva pensato diverse volte di cambiare nome, proponendo un referendum ai cittadini per individuare un nome alternativo tra una rosa di proposte.

Ma tutto si era sempre fermato a livello di chiacchiere da bar e non se ne era mai fatto niente.

Ecco, io mi ricordo che quando avevo pronunciato il nome “Camposanto”, Goffredo Fofi e Gad Lerner avevano ritirato le labbra come a voler risucchiare l’aria, insaccando il collo tra le spalle, accompagnando il tutto con il più universale dei gesti apotropaici maschili.

E solo in quel momento, incredibilmente solo in quel momento, per la prima volta, avevo collegato il nome di quel piccolo Comune del modenese al significato che evidentemente richiamava in chiunque, tranne me. E perché qualcuno riteneva plausibile l’ipotesi di un referendum.

Ah, per la cronaca, tra i nomi proposti per il referendum, quello che a me piaceva di più era: Campo dei fiori.