domenica 25 aprile 2021

Sicuramente non nelle migliori famiglie

 

Invoco il primo dei dieci diritti del lettore: il diritto di non leggere.
Di non leggere, anche se l'ho già fatto, "Nelle migliori famiglie", il nuovo romanzo di Angelo Mellone, di cui avevo letto una recensione - un peana, per meglio dire - di Aldo Cazzullo.

Sobriamente, Cazzullo così introduceva il tema in una mezza paginata sul Corriere della Sera una ventina di giorni fa: "Nel tempo in cui ci si sposa sempre di meno e ci si separa sempre di più, viene quasi scontato chiedersi se la crisi del matrimonio — la forma istituzionale del giuramento di amore eterno — sia davvero irreversibile. È una questione di egoismo sociale, di debolezza dei legami, di narcisismo diffuso? Ci pensa ogni tanto qualche saggio scientifico e ogni tanto ci pensa la letteratura"

Ci pensa la letteratura. Ci pensa il romanzo di Mellone, a cui Zincone affida il ruolo di stella polare per illuminare (l'Occidente in particolare) la roadmap su cui il matrimonio sta navigando solo apparentemente a vista.

Probabilmente sbilanciato da aspettative siderali, attendo che il romanzo decolli, perché nelle prime 50 pagine ha la consistenza della carta velina. Scrittura fluida, solidità latitante. Aspetto che l'intreccio tra le biografie dei personaggi e la trama mi permetta di pensare tra me e me ogni tanto almeno un "ah cazzo, però", ma niente. E nessuna notizia sul destino dell'istituzione-matrimonio.

E qui mi tocca a dare ragione - ahimè - a Davide Baruffi, che per indicare la fragilità dei romanzi, intesi proprio come forma di narrazione, un giorno mi ha ricordato una frase folgorante di Leo Longanesi: 

"Flaiano è come me. Né io né lui ci rassegneremo mai a scrivere una frase come: "Ella staccò la fronte dal vetro della finestra e venne verso il centro della stanza". Purtroppo un romanzo esige anche passaggi banali: nemmeno Tolstoj può esimersene. Flaiano, come me, preferisce rinunziare al romanzo". 

Il punto è che di passaggi banali è pieno il libro, ma soprattutto a un certo punto si staglia in tutta evidenza un'altra verità scolpita nella pietra, sempre da Flaiano, e cioè che "Un buon scrittore non precisa mai". E invece va esattamente così. Va che dai personaggi non arriva niente, dalla trama manco a parlarne, immersa com'è - paradossalmente nel tentativo di uscirne - di confermare una serie infinita di cliché sulla famiglia contemporanea.  L'escamotage narrativo, alla fine, è una voce narrante fuori campo che di tanto in tanto raccorda gli eventi, spiegando - appunto - quale sia il senso di quel che si è appena letto o che si sta per leggere. Che è più o meno come quell'attimo glaciale in cui si sente la necessità di dover spiegare una barzelletta appena raccontata.

E tutto avviene nelle ultimissime pagine, che a voler pensare male sembra di sentire l'editore che dice all'autore di darsi una mossa a finire il romanzo, che qui bisogna pubblicare al più presto dai dai dai. E così, una vicenda che avrebbe meritato almeno altre 200 pagine di ossigeno per dispiegarsi in tutta la sua potenza (e soprattutto lasciare che siano i personaggi a parlare), si infila in un imbuto di 3 pagine in cui tutto viene a capo. Con l'aggiunta di una paginetta finale con un elemento oggettivamente catastrofico per la trama, ma che buttato lì sembra quasi un'appendice dimenticata negli appunti e recuperata al volo per non lasciarla nel cassetto.






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